Si pensava che la morte improvvisa di Andrew Fletcher decretasse la fine gloriosa del marchio Depeche Mode. Sarebbe stata una scelta piuttosto saggia, visto anche il non proprio ottimale livello di ispirazione dell’ultimo ventennio artistico della band. Invece ecco che improvvisamente dopo alcuni mesi sui social spunta una foto dei due superstiti impegnati in studio: i Depeche Mode non si fermano, vanno avanti come duo. Una scelta che indubbiamente ha subito generato perplessità, in particolare riguardo alla riuscita o meno del nuovo materiale senza Andy.
Il risultato invece è stato piuttosto sbalorditivo, più che mai impensato. Perché diciamolo, ad essere sinceri, la produzione dei Depeche Mode del terzo millennio non offre un livello di ispirazione stupefacente, l’impalcatura sonora appare eccessiva e sovraccarica, sembra un po’ un pasticcio di suoni non gestito alla perfezione, vi è troppo pseudo-modernismo, troppa voglia di suonare attuali perdendo in compattezza; inoltre le forzature rock e i minutaggi un tantino alti appesantivano ulteriormente il tutto. Non che questi lavori non meritassero ascolto, alla fine rimangono degli artigiani dell’elettronica, ma si avvertiva quel senso di pesantezza e di ristagno di idee. Interessante il recentissimo articolo di RollingStone in merito, in cui l’abbandono di Alan Wilder a metà anni ‘90 viene indicato come evento decisivo negativo sulla creatività del gruppo.
Cosa succede in “Memento Mori”? Semplicemente sono tornati a fare quello che sapevano fare meglio. Si sono liberati di tutto quello che appesantiva il prodotto, hanno rimosso gli eccessi sonori, hanno smesso di fare a tutti i costi la rock band (cosa che NON sono, ci sono riusciti bene nel 1993, un po’ meno successivamente). Qui utilizzano i suoni giusti, nella giusta quantità, nel momento giusto, senza andare troppo oltre. In una buona fetta di album ci sembra addirittura di respirare le atmosfere di “Violator”, quando senti quei suoni vagamente techno, pungenti ma minimalisti, quei tappeti delicati e nebulosi, quel ritmo club-friendly, la mente va lì; a tal proposito quando senti “My Favourite Stranger”, “People Are Good” e soprattutto “Caroline’s Monkey” sembra davvero di riascoltare “World in My Eyes” o “Halo”, mentre la lentissima “Speak to Me” ricorda “Waiting for the Night”. A voler esagerare poi “Wagging Tongue” con la sua elettronica smagliante e diretta riporta alla mente persino i primissimi tempi della band, sembra uscita da “A Broken Frame”. Ma si attinge anche qualcosina da “Ultra”, come nelle meno ritmate “Don’t Say You Love Me” (guarda caso un titolo pescato appieno dal testo di “It’s No Good”, chissà se si tratta di pura coincidenza) e “Soul With Me”. Della produzione anni 2000 comunque il duo non butta via tutto, i suoni più moderni e abrasivi del periodo li ritroviamo qua e là seppur più diluiti, e comunque anche i suoni delle composizioni più nostalgiche sono stati impercettibilmente inaspriti per evitare che queste risultino eccessivamente datate (che comunque non sarebbe affatto un male); e poi la traccia d’apertura “My Cosmos Is Mine” ha proprio il suono delle pubblicazioni del terzo millennio.
E quindi qualcuno potrebbe dire… Ma allora hanno fatto centro con un disco nostalgia? È da considerarsi una vittoria di cui vantarsi? Non so, probabilmente no, in fondo io sono sempre quello che appoggia l’evoluzione continua di una band, ma se andare avanti vuol dire finire nel burrone meglio fare un passo indietro. I Depeche Mode non erano finiti nel burrone, per carità, si difendevano comunque discretamente, ma erano andati in territori impervi, rischiosi, ora invece sono tornati nel loro porto sicuro e così facendo hanno realizzato il loro miglior disco in 25 anni. Hanno voluto correre un rischio e ne è valsa la pena.
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