Spirit non è un album politico, lo dicono i Depeche Mode.
Qui in effetti non si schierano politicamente, ma rimproverano aspramente il genere umano per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. È una critica verso chi ha compiuto scelte sbagliate, sbagliando anche l’esempio da seguire, che incarna perfettamente lo spirito di tensione e smarrimento di chi ha assistito alla Brexit e all’elezione di Trump, di chi non comprende pienamente dove ci porterà un nazionalismo ristretto ai propri interessi. Come nel video in bianco e nero del singolo apripista, il racconto musicale dei DM ha atmosfere cupe in tutto un album che non rappresenta una visione pessimista del mondo ma la triste, tragica, feroce realtà odierna.
La prima traccia è Going Backwards, un'amara riflessione sul processo involutivo della specie umana rispetto all’evoluzione tecnologica e a strumenti di controllo atrofizzanti. (We’re going backwards/Armed with new technology/Going backwards/To a cavemen mentality). È un tornare indietro che si ripercuote anche nei suoni, con un pianoforte mescolato in un perfetto intreccio all’elettronica. Un sound ancora più attento ai dettagli, diverso dai precedenti lavori, ma immediatamente riconoscibile nello stile tipico dei DM, potente e cupo, vicino al minimalismo berlinese e con leggeri accenni al blues, in linea con le liriche del testo. Going Backwards sembra una congiunzione tra “In Chains” di Sound of the Universe e “You Move” di questo stesso album, tutte scritte (musica e testi) da Martin Gore.
Where’sThe Revolution riparte dalle amare considerazioni sull'atrofia sociale del brano precedente per chiederci dove sia finito il desiderio costruttivo, dove sia finita la voglia di reagire dopo aver lasciato prendere decisioni ad altri (Who's making your decisions?/ You or your religion/ Your government, your countries/ You patriotic junkies/ Where’s the revolution?). Non c’è più il piano, ma suoni decadenti mantengono un’ambientazione cupa in un crescendo con accenni a un reazionario punk, culminante al ritornello. È una suggestione di immagini plumbee fino allo splendido bridge (The train is coming/Get on board/The engine’s humming) che richiama sounds dei Pink Floyd, come avvenuto in passato con Violator e più avanti, ancora più marcatamente, con Cover Me.
The Worst Crime si apre su un arpeggio della chitarra tremolante di Gore su cui si appoggiano lentamente la batteria e le tastiere, in un ritmo oscuro e malinconico che accompagna il viaggio verso il patibolo di una razza umana apatica e superficiale, che si è condannata da sola (How could we commit the worst crime?/ We’re the judge and the jury/ The hangman, the convict). Il canto, lento, dolcemente feroce e sensuale, ricorda le precedenti performances di Gahan con i Soulsavers.
Scum è un’invettiva verso l’indifferenza (What have you ever done for anyone?/ Hey scum, hey scum/ What are you doing judgement time has come?). Il ritmo si fa incalzante e aggressivo, con synth anni ’80, bassi potenti e pulsanti, come fischi di una locomotiva che vomita rabbia attraverso la voce filtrata di Gahan. È uno tra i brani più vicini alle ultime produzioni dei DM.
I bassi potenti ritornano in You Move, firmato da Gore e Gahan. È un pezzo che si allontana dall’invettiva della parte precedente dell’album per aprire un momento di riflessione e di incertezza, come a rappresentare il distacco dalla dimensione terrena a quella spirituale. La voce di Gahan (I don’t need you, I don’t need your ball and chain/ There’s no water in that well/ But I like the way you move) sembra guardare il movimento terrestre sostenuto da bassi pulsanti ed elettronica.
Cover Me è il brano più importante, perché rappresenta perfettamente il senso di Spirit. Ha un inizio lento, su una base sonora eterea che costruisce la melodia. Le tastiere cambiano nota con evidente richiamo al viaggio floydiano nella Dark Side of The Moon e accompagnano la voce da crooner electro/soul di Gahan, meravigliosamente avvolgente come nell’album Angel & Ghosts coi Soulsavers (One Thing, in particolare). La lunga coda strumentale, tra vaporosi sbuffi cinematografici, è un crescendo di synth puntiformi che rimandano alle tastiere di John Carpenter (quella linea di basso, ripresa anche nella serie Strange Things) e alle ambientazioni sonore dei Boards Of Canada (come ad esempio la fantastica Reach For The Dead/Tomorrow’s Harvest). Cover Me è senza ombra di dubbio il punto più alto dell’album, e il testo segue perfettamente il viaggio emozionale, oltre lo zenit, in attesa di una nuova aurora (Way up here with the northern lights/ Beyond you and me/ I dreamt of us in another life/ One we’ve never reached).
In Eternal il viaggio spirituale prosegue con un breve requiem elettronico, atonale ed etereo come il volo di Icaro. La voce di Martin sostituisce quella di Dave, ed è molto efficace nel restituire profondità e passionalità in un brano dove amore e morte (come in Leopardi, fratelli, a un tempo stesso) si fondono. Il romanticismo tedesco di Gore canta un bacio che segna allo stesso tempo il ritorno terreno e l’importanza dell’amore quale assoluto valore eterno (And kiss you/ And give you all my love/ As well as any man can/ As well as any man could/ You are my eternal, eternal love/ You are my eternal, eternal love).
In Poison Heart, la voce calda di Gahan riprende l’invettiva contro il genere umano, sempre più vicino al baratro (Now we’re closer to the edge/ Now you push me to the edge). Qui i DM propongono una nuova lettura del pop-blues anni ’90 di Songs Of Faith And Devotion e di Ultra: batteria pulsata, tastiere ed effetti post industriali, innesti di chitarra in una soul ballad di buon ritmo.
So Much Love è il più vicino ai pezzi più classici dei DM. Ricorda nelle sonorità new wave/post punk Never Let Me Down Again (Music for the Masses) e nella ritmica A Question Of Time (Black Celebration).
È presumibile che So Much Love sarà uno dei prossimi singoli tratti da quest’album. Il testo, aggressivo quanto il ritmo martellante della canzone, parte con la voce di Gahan. Quella di Gore si unisce al primo There Is So Much Love In Me, e ancora al secondo, dopo il quale la voce di Gahan si arricchisce di un’eco per poi accompagnarsi definitivamente con quella di Gore sino al termine. È un altro modo per sottolineare l’importanza dell’amore e della fratellanza quale indispensabile via d’uscita al processo involutivo (You can despise me/ Demonise me/ It satisfies me so/ There is so much love in me).
Poorman ha una continuità stilistica con il precedente album, Delta Machine. È un’altra ballata che sottolinea il fallimento di un impianto sociale, votato alle multinazionali, e a quell’istinto di sopravvivenza che ignora i più deboli (Hey, passers by/ They don’t dare to catch his eye/ Couldn’t even tell you why/ Or what’s happenin’ inside/ Corporations get the breaks). Parte con un suono di tastiera Kraftwerk Style che rimbalza da un orecchio all’altro e la voce blues di Gahan. Una canzone fredda, destrutturata, nella quale entrano ed escono ritmica, suoni elettronici, chitarra in distorsione, fino a riscaldarsi e creare una base sonora completa. Un esempio molto elegante di progressione sonora con un’accuratezza maniacale nei volumi e nella pulizia del suono.
No More (This Is The Last Time) parte con bassi molto cupi che accompagnano la voce di Gahan, per aprirsi in un crescendo che si trasforma in melodia, arricchendosi di tastiere fino al raddoppio vocale dello stesso Gahan. Il testo è un’amara constatazione della ciclicità degli stessi errori (One more ride I can’t explain/ Our hesitation/ We stop and start again/ Repeat the process/ We repeat the lie/ Time and time again) con la speranza che questa volta sia anche l’ultima (This is the last time/ All those memories, all our pain/ The last time).
Fail è affidata alla voce di Gore, che la interpreta con la stessa profondità e passionalità della precedente Eternal. È qui che compare per la prima volta la parola Spirit che dà nome all’intero album (Our spirit has gone/ And once where it shone/ I hear a lonesome song/ People, how are we coping?) La musica è guidata da bassi profondi, su cui si appoggiano le tastiere e la voce di Gore. Un’altra ballata tra suoni dissonanti ed evanescenti, con percussioni appena accennate. Le tastiere si evolvono in crescendo su una base ritmica più accentuata e si spengono in una chiusura leggera e raffinata.
Dal mio punto di vista Spirit è un album spettacolare. Il singolo Where’s the Revolution non poteva essere apprezzato pienamente alla sua uscita perché è parte di un progetto che va ascoltato nella sua interezza per comprenderne appieno la potenza e la raffinatezza in ogni più piccolo dettaglio sonoro, senza dimenticare la capacità interpretativa di testi attuali, mai banali e sempre in rapporto simbiotico e funzionale con il sound.
La vera forza dei DM è riuscire a trasformarsi, evolvendo musica e testi a quanto di più attuale possa esistere, ma non perdendo mai quell’impronta di immediata riconoscibilità. Ecco perché in questo disco si avvertono connessioni spazio-temporali tra passato presente e futuro: se i synth hanno un’impostazione vintage per accentuare sensazioni e ricordi, è immediatamente percepibile un’acuta sensibilità verso soluzioni e sound postmoderni. Merito di un’attenzione davvero maniacale ai dettagli, alle sfumature, ai ricordi e alle esperienze di un bagaglio culturale che non ha eguali nell’attuale panorama musicale. I DM hanno 50 anni, non nascondono le loro rughe ma si evolvono con sperimentazioni e ricerca: il risultato è una produzione che si allontana dalle hit da rotazione radiofonica ma si avvicina al capolavoro senza tempo con un’opera di una bellezza rara e di grandissima qualità, una traccia indelebile tra le assurdità dell’attuale presente.
Produzione: James Ford (Simian Mobile Disco)
Versione standard: 12 brani
Versione deluxe: 12 brani, 5 Jungle Spirit mixes, booklet.
Copertina, elementi grafici, artwork e fotografie: Anton Corbijn
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