Niente titolo. Nessun brano titolato. Nessuna nota introduttiva. Solo una croce grigia su uno sfondo grigio. Sulla croce, impresso a caratteri quasi illeggibili: Der Blutharsch, letteralmente "aspro sangue".

Questo è il modo in cui il viennese Albin Julius si affaccia sul mercato discografico con la sua nuova temibile creatura: i Der Blutharsch, appunto.

Era l'anno 1997. Nessuno aveva mai osato tanto. Come nella copertina dell'album, i suoni contenuti in questo debutto non-titolato oscillano dal grigio chiaro al grigio scuro. Julius non è un novello, già da anni bazzicava per la scena, già qualcosa aveva tirato fuori con i suoi The Moon Lay Hidden beneath the Clouds. Il debutto dei Der blutarsch è quindi qualcosa di già maturo, terribilmente incisivo, destinato a divenire una pietra miliare del genere.

Julius lavora per sottrazione, prende il peggio dei Death in June, dei Blood Axis, dei NoN, toglie il folk, il post-punk, il noise alle suggestioni belliche di Pearce, Moynihan, Rice: quello che rimane è un deserto di ruderi, un paesaggio di palazzi franati, un esercito fantasma che marcia nella polvere verso la propria morte.

Il post-industrial dei Der Blutharsch non avrà nome, ricadrà semplicemente nel calderone del folk apocalittico, insieme a tutti quegli artisti che, pur stilisticamente dissimili, vengono accomunati per il credo idelogico. Si parla di destra, di estrema destra, di una destra romantica e decadentista che artisticamente si erge ad evocazione di una gloriosa e tragica Europa che non esiste più, evocazione di un'epoca in cui coraggio, spirito di abnegzione, senso dell'onore smuovevano anime, sfidavano la Morte, conducevano all'Immortalità. Julius ha però ancora bisogno di scindere fra Morte e Gloria, la sua materia è ancora affettata grezzamente, solo in futuro sarà in grado di sposare Bello e Morte, Onore e Sangue. Per il momento Julius si limita a gettare in un quadro astratto dense pennellate di Morte e rifinire il tutto con forti accenti di aspra tensione epica. Ed in questa cruda manifestazione l'arte di Julius trova forse la migliore espressione: una rappresentazione in cui la guerra non è solo fieramente celebrata, ma descritta, per lo più, nella sua desolazione, nella sua putrescenza, attraverso la ruggine dei panzer, il fango delle trincee, la pesantezza degli scarponi che strisciano nella neve.

Sfrigolano sul piatto i dischi polverosi ereditati dal Terzo Reich scovati da Julius chissà in quale lercio retrobottega, rischiando magari la galera. Marcette, canzonette da regime, fanfare militari affogate in scenari che evocano catastrofi immani. La rappresentazione della guerra di Julius marcia lentamente, tratteggiata dal suono ondeggiante e reiterativo di una elettronica deviata, adombrata dall'effluvio ambientale di melliflui sinth, disturbata dal deambulare incerto di orchestre rallentate, scossa dall'echeggiare delle grida raschianti di generali invasati, scandita dal lento e funereo battito del tamburo da guerra che misura la desolazione di un campo di battaglia intriso di sangue e cosparso di corpi privi di vita. Questi sono i veri Der Blutharsch: un muro di suono compatto, statico, minaccioso, come le ombre lunghe di poderose statue che evocano imperi oramai decaduti. Muscoli, armi e nervi di pietra in procinto di sgretolarsi.

Chi ha avuto modo di leggere altre mie recensioni su questo sito sa come, nonostante mi ostini a parlare di certi gruppi, la mia sensibilità personale e il mio background culturale mi portino a non condividere il messaggio che soggiace a questo tipo di musica. Non sono rincoglionito, quindi, non sono qui a rinnegare le mie profonde convinzioni pacifiste. Ho solo voluto scrivere questa recensione in preda ad una sorta di nazi-transfert al fine di rendere giustizia ad un lavoro che, nel bene o nel male, ha segnato la storia di un certo tipo di musica.

L'arte si descrive anche così, forse è il modo più onesto per farlo.

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