Breve premessa: il ripudio della guerra è oramai un valore comunemente acquisito e, personalmente parlando, incontestabile da tutti i punti di vista: storico, intellettuale, razionale, umano. Purtroppo tutti coloro che, come me, accolgono incondizionatamente un valore di questo tipo, si devono necessariamente scontrare con un semplice dato di fatto: viviamo in un mondo in cui meno di un quinto della popolazione conduce un'esistenza dignitosa, e il nostro benessere si regge sulla guerra e sull'esistenza di sanguinari regimi dittatoriali.
Non raccontiamoci cazzate: siamo dei privilegiati, e a prescindere dalla nostra condotta e dai nostri ideali, il solo fatto di far parte di questo sistema ci rende silenziosi complici dei peggiori delitti perpetrati contro l'umanità. Non può, a mio avviso, esistere coerenza fra la nostra condotta e i nostri ideali, ma solo una lacerante contraddizione con cui siamo costretti a convivere, tanto il sistema ci condiziona e ci obbliga a seguire determinati tracciati. Ciò non vuol dire che siamo condannati ad un passivo abbandono innanzi all'immutabile, ciò è semplicemente un punto di partenza, una consapevolezza per poter sviluppare un pensiero critico ed autonomo rispetto alla complessità che ci circonda, evitando di scadere in buonismi a buon mercato ed atteggiamenti ipocriti che non sono altro che un modo per sgusciare fuori dalle nostre responsabilità.
Tutto questo, insomma, per dire che mementomori ripudia ogni forma di guerra e violenza (salvo quella artistica e quella contro se stessi), ma che non per questo si sente autorizzato ad ascoltare solo ed esclusivamente U2 e Jovanotti. Primo: perché il jet privato di Bono Vox non va ad energia solare o ad acqua. Secondo: perché sarebbe limitante e riduttivo, soprattutto quando si parla di arte, precludersi a priori delle vie per motivi che con l'arte poco hanno a che fare. Terzo: perché la vita sarebbe triste, molto più triste, personalmente parlando, una vera merda (quest'è l'ombelico del mondoooo… brrrrrrrr mi vengono i brividi… ).
Bene, una premessa che mi sentivo di fare visto che mi accingo a recensire un artista da bollino rosso, anzi nero: il viennese Albin Julius, navigato musicista, produttore ed elemento di spicco nella scena post industriale, prima nei The Moon Lay Hidden beneath the Clouds, poi amico e fido collaboratore di illustri esponenti della scena neo-folk industriale britannica ed americana (Death in June, Non, Blood Axis sono i nomi di maggiore spicco), ed infine mastermind del progetto Der Blutharsch, punta di diamante dell'industrial più drammatico e belligerante.
Albin Julius non ha mai nascolto il proprio credo ideologico e l'amore per un certo revisionismo storico, e questo ha pregiudicato fin dall'inizio ogni possibilità di neutralità nei suoi confronti, decretando da un lato il suo successo, infoltendo dall'altro le schiere dei suoi detrattori, per ragioni che con la musica hanno poco a che fare.
Dal 1997, anno di uscita dell'omonimo primo lavoro, l'entità Der Blutharsch ha rappresentato la riesumazione più sentita ed appassionata delle atmosfere tese, cupe, ma anche vibranti (a seconda dei punti di vista) dell'Europa dello scorso secolo. "The Track of the Hunted", "Der Sieg des Lichtes ist des Lebens Heil", "The Pleasures Received in Pain", "When All Else Fails!" sono esempi di una musica solenne ed evocativa che, fra possenti ed epiche orchestrazioni (è evidente l'amore per Wagner e Morricone), esplorazioni ambient, percussività marziale e campionamenti a go go, ci riporta dritti dritti negli anni trenta e quaranta.
Con questo "Time is thee Enemy!", classe 2004, Albin Julius si contorna di più collaboratori e tenta un approccio, come dire, più suonato. Una scelta che, nella sua radicalità, si dimostra inevitabilmente come un'arma a doppio taglio. Da un lato emergono una rinnovata freschezza compositiva, una spontaneità, una leggerezza e perfino un'ironia che rendono l'ascolto senz'altro piacevole e scorrevole. Dall'altro, è evidente come la ricerca sonora di Julius si sia fatta conseguentemente più approssimativa (soprattutto riguardo alla cura dei suoni), perdendo così quella compattezza formale e quel potere evocativo che rendevano l'entità Der Blutharsch una macchina perfetta, un monolite dal rigore inattaccabile.
Quel che ne viene fuori è un piacevole guazzabuglio che, fra trovate azzeccate ed episodi più banali, va ad abbracciare un po' tutte le sonorità che contraddistinguono il genere. Inutile, anzi impossibile, segnalare una traccia piuttosto che un'altra (è abitudine consolidata in casa Der Blutharsch non titolare i vari pezzi!): basti dire che fra i consueti scenari di guerra, le immancabili citazioni spaghetti-western e il continuo rombare delle percussioni a mano, capiterà di imbattersi anche in suggestivi ed inediti momenti acustici, in violenti (quanto scontati) assalti electro-industrial e perfino nell'irresistibile post-punk della riuscitissima "Baltikum", cover degli italiani Ain Soph, da sempre seguiti con interesse da Julius. Il tutto narrato dalle voci di Julius stesso, della fida Marthynna, di Geoffroy D. dei Dernière Volonté, di Wilhlem Herich dei Genocide Organ e del nostrano Marco Deplano dei Foresta di Ferro: fra stecche, sbavature, versi in inglese, francese ed italiano, i nostri eroi confezionano un album che probabilmente deluderà i fan più intransigenti, ma non dispiacerà affatto a tutti gli altri (e non è un caso che questo album abbia avuto buoni responsi soprattutto al di fuori degli addetti ai lavori).
Resta il dilemma iniziale, ovvero se abbia senso o meno sorbirsi il farneticare guerrafondaio di qualche ragazzotto che probabilmente non sa fino in fondo quello che dice e che il cui intento, forse, è solo quello di provocare i più facilmente impressionabili. Al di là del fatto che le contraddizioni con la nostra coscienza sono ben altre che ascoltare un album dei Der Blutharsch, è bene in questi casi lasciare il gossip alle riviste specializzate, guardare esclusivamente alla forza espressiva di una proposta musicale e capire se ci piace o no. E' questione di sensibilità, quanto a me, nonostante tutto, sono pronto a riconoscere in Albin Julius un innegabile talento (e a tal proprosito si vadano a sentire anche e soprattutto "Take Care and Control" e "Operation: Hummingbird" dei Death in June). Ma non solo, questa musica, rappresentazione romantica ed appassionata del fenomento guerra, può assumere anche un interesse di tipo socio-psicologico, costituendo un viaggio che va oltre i tabù intoccabili della società, nonché la manifestazione evidente che le pulsioni aggressive e distruttive insite nella natura umana (che vanno tenute a bada, ma mai negate!), sono sempre pronte a riaffiorare in superficie, a scapito della logica, della ragione e degli insegnamenti della storia.
E poi, detto fra noi, quali edificanti insegnamenti abbiamo mai tratto dai versi del padre di noi tutti Lou Reed? Forse quanto è bello farsi di eroina?
Carico i commenti... con calma