"When All Else Fails!" chiude parzialmente un ciclo, e parzialmente ne apre un altro. Dicasi anche: il tipico caso di transizione non riuscita. Una zona di passaggio, questo album del 2002, in cui la corazzata Der Blutharsch alleggerisce l'artiglieria, mantiene le sembianze di un carro armato, ma sostituisce le granate con dei gavettoni ripieni di piscio.
Come spesso capita nelle opere di transizione, tutte le ciambelle non escono con il buco e buone idee si mescolano a trovate non del tutto riuscite. Ma del resto come non concedere al pasticcere Albin Julius, forte di un ruolo di spicco nella grey area, e con alle spalle una manciata di album innegabilmente riusciti, come non concedergli un pizzico di voglia di rinnovamento, una qual certa volontà di aprirsi a nuove sonorità?
Le plumbee visioni post-industriali che caratterizzavano il passato vengono così a contaminarsi di bislacche soluzioni che caratterizzeranno il meglio riuscito successore "Time is Thee Enemy!": l'album della svolta definitiva che porterà l'entità Der Blutharsch verso lidi più canonicamente neo-folk.
Ma se in passato si apprezzava il ferreo rigore soggiacente alle pachidermiche evoluzioni di un rugginoso industrial da cortina di ferro, in "When All Else Fails!" si soffre l'innesto di nuovi elementi non perfettamente coagulati (e coagulabili) nel sound pur sempre tipico dei Blutharsch (i grossi stravolgimenti rimarranno appannaggio dell'album successivo, mentre è lecito annoverare questo lavoro come il non brillante epilogo di una fase giunta al suo disfacimento).
La musica dei Blutharsch continua dunque a muoversi fra fosco ambient e il peculiare post-industrial da seconda guerra mondiale marchio di fabbrica del progetto. A fare la differenza è il fatto che la battaglia viene combattuta (per la prima volta) in compagnia di una parata di personaggi, certi noti (Lina Baby Doll dei Deutch Napalm, Joeffroy D. dei Dernière Volonté), altri meno (Marthinna, J. Weber, Maya G.Mc. S), tutti più o meno destinati a divenire presenze fisse negli album a seguire. Tutti, più o meno, chiamati a rendere confusa e claudicante la musica di Julius, che alla fine della fiera se la cavava meglio da solo (chi fa per se...).
Le voci, per esempio, qua stonicchiano, là divengono un vero supplizio per le nostre orecchie, sortendo nel complesso l'effetto contrario di quello che probabilmente era l'intento originario: conferire maggiore solennità al monolitico incedere del panzer viennese. Che Julius non sia un cantante, questo lo si sapeva, e la trovata di aumentare in modo massiccio le porzioni cantate non emerge come una scelta particolarmente azzeccata (con buona pace della vocalist Marthynna, che certo non è la Callas, e che solo raramente riesce a far recuperare qualche punticino all'insieme delle cose).
Si registra, inoltre, l'emergere prepotente di una componente più propriamente folk (non neo-folk, precisiamo) che probabilmente costituisce un rigurgito dal passato più remoto della carriera di Julius (sempre che qualcuno sia in grado di ricordarsi dei non memorabili The Moon Lay Hidden beneath the Clouds, prima incarnazione dei Blutharsch).
Chitarrine scordate scorrono fra i solchi di un'elettronica più pasticciata del solito, altri strumenti acustici (fra cui l'immancabile violino anni trenta di Julius) e percussioni a mano cozzano in malo modo nel consueto bombardamento sonoro a base di voci campionate e sirene anti-raid.
Una ricerca di umanità comprensibile, eppure non sempre portata avanti con la giusta convinzione. Di buono c'è che l'album guadagna in scorrevolezza, i brani si diversificano, le buone idee non mancano, e nel complesso la musica dei Blutharsch inizia a macchiarsi di una qual certa ironia mescolata a sfrontatezza, mix che caratterizzerà l'evoluzione del progetto; un'ironia (come sempre del resto è l'ironia) apprezzabile, ma che inevitabilmente toglie qualcosa all'atmosfera e al potere evocativo della musica di Julius, non più, da questo momento, una missilata di razzi nel culo ed un sentiero lastricato di grumoli di emorroidi. Un'ironia non scevra di arroganza, una piena manifestazione del proprio credo, quindi, in cui non c'è più neppure bisogno di apparire duri e puri, come se quel che si doveva dimostrare sia già stato dimostrato, ed adesso si possa approdare ad una leggerezza che solo le certezze ed uno status inattaccabile conferiscono.
Basti prendere la traccia numero 12 (come al solito i brani non sono titolati): una bizzarra marcetta che potrebbe anche essere una canzone di Adriano Celentano (sarà, ma a me ricorda vagamente "Azzurro"), una scelta stilistica inconcepibile se si pensa alla tensione scaturente dalle note dolenti e ben ponderate di un album come "The Track of the Hunted".
A chi potrebbe piacere una svolta del genere? Forse a nessuno (ne è la prova il decrescente valore degli album che seguiranno "Time is Thee Enemy!", sempre più diretti verso uno scialbo goth-rock). E così i fan della prima ora storceranno il naso, mentre chi ha sempre pensato che la musica dei Blutharsch sia merda, non troverà che una valida conferma della propria teoria.
Buona merda a tutti!
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