Quando si parla di musica rock, si pensa immediatamente ai suoi destinatari, ai suoi referenti, al suo pubblico: i giovani. Sin dalle origini (gli anni ‘50 di Chuck Berry e Buddy Holly), il rock si è sempre sobbarcato l’onere di esprimere lo stato d’animo della gioventù del proprio tempo, tra depressione, euforia, rabbia, apatia, fragilità, trasgressione, vitalismo e impulsi autodistruttivi. Di volta in volta, il rock ha messo a disposizione dei ragazzi di ogni generazione la sua versatile forma, adattandola a veicolare l’espressione di ogni sfumatura sentimentale ed esistenziale dell’universo giovanile. Se poi ci si focalizza sulla scena hardcore americana degli anni ‘80, ecco che si può parlare più specificamente non solo di giovani, ma di adolescenti. Sì, perchè la gran parte dei gruppi hardcore della vecchia guardia (operanti, in larga misura, nella California di inizio decennio) era composta da minorenni, da liceali, da “baccanetti”, capaci di sopperire alle carenze tecniche con un’espressività, una sincerità e un’ispirazione talora irripetibili

E’ il caso dei Descendents che col loro primo LP, “Milo Goes To College” (1982), scrissero una delle pagine più intense della storia dell’hardcore. Meno potenti, ma più fantasiosi e più intimisti dei “cugini” Adolescents, i Descendents furono tra i creatori di quella forma di hardcore melodico, tipicamente West-Coast, che avrebbe trovato la sua massima espressione a fine decennio con l’esperienza dei Bad Religion e della loro Epitaph.
Come tanti capolavori, anche “Milo” si apre con una sorta di manifesto dello stile della band: “Myage”. L’irrefrenabile batteria del leader Bill Stevenson, tutta rullate e finezze; il basso elegante e funambolico di Tony Lombardo, vera anima musicale del gruppo, a reggere la melodia portante; la chitarra di Frank Navetta, libera di svariare; il canto di Milo Aukerman, capace di alternare il sarcasmo della strofa con la distensione “indie” del refrain: una ricetta assai matura rispetto all’hardcore del suo tempo, un amalgama sonoro capace di anticipare le forme più evolute del post-hardcore di qualche anno dopo (forse esagero, ma credo che certo grunge, certo indie-rock e persino certo emo-core debbano alcune delle loro soluzioni all’opera dei Descendents, dalle inflessioni melodiche al tono affranto, dalle ritmiche creative alla chitarra talora cacofonica).

Che si tratti di una band originale dal punto di vista compositivo, lo dimostrano brani brevi ma ricchi di trovate, come la filastrocca demenziale “I Wanna Be A Bear” e il fosco voodobilly “Tonyage”, entrambi detonati da progressioni a rotta di collo. Nessuno degli sperimentalismi contenuti in questo disco è fine a se stesso: ogni espediente è volto alla resa immediata di un’umore, di un sentimento. In “Suburban Home” sale di nuovo in cattedra il basso aggraziato di Lombardo, a trasformare il brano da uno sfogo impulsivo a una soave elegia.
 Il vertice di rabbia e frustrazione è rappresentato da “Parents”: un plumbeo giro di basso in primo piano, una chitarra dissonante sullo sfondo, ad accompagnare il lamento roco, scorato e drammatico di Aukerman, che mentre urla disperato “I Am A Boy And Not A Toy!” rimanda alle future flagellazioni di un certo Kurt Cobain… La sferragliante “Statue of Liberty” attenua forse l’ansia e il dolore, ma accentua lo spleen e la depressione. Ma se i sentimenti “negativi” restano quelli dominanti nell’universo adolescenziale affrescato dai Descendents, non mancano i momenti più distesi: due solari power-pop come “Marriage” e “Bikeage”, giocati rispettivamente su registri burleschi e sentimentali, sono un vero e proprio antidoto al disagio, un invito a vivere la vita con entusiasmo. La seconda, in particolare, oltre ad essere uno dei vertici del disco, costituisce a mio avviso una grande lezione di stile: insegna a trattare tematiche legate alla sfera quotidiana, affettiva, privata, senza scadere nella melassa; a mettere a nudo il proprio cuore senza suonare patetici; ecco perchè “Bikeage” è una grande canzone d’Amore (nel senso più ampio del termine), con la quale i Descendents hanno mostrato come il genere apparentemente più brutale della storia del rock possa essere usato come mezzo per tinteggiare le pieghe piu’ nascoste dell’animo umano.
 La tormentata “I’m not a loser”, l’ansiogena “I’m not a punk” e la sbrigativa “Kabuki Girl” sono altre amarognole poesie che preparano la strada al trittico finale, uno dei più emozionanti di sempre. Oltre alla citata “Bikeage”, troviamo il capolavoro “Hope”, a mio parere una delle più belle canzoni di tutti i tempi. Un’inno, un’incitazione, una cavalcata epica alla Bad Religion (anni prima di “No Control”), un canto alto contro le ingiustizie della vita, il disagio giovanile, lo sconforto esistenziale, il male di vivere, la condizione di sottomissione e umiliazione che i ragazzi più sensibili ed introversi si trovano a dover accettare per sopravvivere alla angherie dei bulli, delle troiette, dei fighetti, dei benpensanti, dei professori, degli istruttori, dei genitori, degli “Uomini delle Istituzioni”, della gente per bene, dei “bravi ragazzi”, dei nonnisti, della massa omologata, di tutti quegli adolescenti incapaci di prendere in mano la propria vita e dediti ai passatempi più futili e a rendere peggiore la vita delle altre persone. “Hope” è un invito a tenere duro, a coltivare accuratamente e ad attendere pazientemente il momento del riscatto: “But I Know/ My Day Will Come/ I Know Someday/ I’ll Be The Only One”.
 L’accorata “Jean is Dead”, con quel ritornello proteso verso un avvenire migliore, con quel magone capace di trasformarsi in grido di speranza, in desiderio di rivalsa, chiude in maniera magistrale e toccante un disco assolutamente imperdibile.

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