Guarda la copertina. Guardala. Cosa vedi?
Due manichini nudi. Sono senza volto. Dietro di loro, fiamme. Rovine. Un cielo senza Dio.
Chi sono i due manichini?
Sono tutti e sono nessuno. Una volta sorridevano. Ora non hanno più gli occhi per guardare il mondo che hanno distrutto. Non possono piangere. Non hanno più la bocca per chiedersi scusa. Non hanno più le braccia per stringersi come una volta. Non hanno più le orecchie per udire lo strazio che li circonda. Per loro non esiste un domani: hanno seppellito il passato e bruciato il presente.
C’è un silenzio profondo nel conflitto, ma non è un silenzio di quiete, di tristezza o di stupore. È un silenzio di odio.
C’è un silenzio tumefatto ed assordante in questo “Strife”. Lo ascolto e mi accorgo che una matassa di suoni impastati e decadenti può essere più eloquente del ruggito di una guerra. “Strife” traspone l’odio e la rabbia in un paesaggio musicale che mette in evidenza la vera, autentica natura di questi due sentimenti: il vuoto. Non una traccia di passione, non un minimo di trasparenza né la volontà di comunicare qualcosa; il conflitto non parla mai, perché è un grandissimo bastardo. Preferisce lasciar la parola alla scia di macerie fumanti del suo passaggio.
Il conflitto è muto, la rabbia è cieca, l’odio è sordo: ma li sentiamo solo quando facciamo del male a qualcuno, anche (e soprattutto) a noi stessi. Ed è per questo che “Strife” sembra così insensato e freddo ai primi ascolti. Le ventate riecheggianti di “Blackout”, sostenute per pochi momenti dalla desolazione fatta melodia, la marziale avanguardia di “From Glory into Where” e i convulsi ronzii drone spietatamente noise di “Deceit” li sentiamo veramente quando ci lasciano con l’amaro in bocca, alla fine. Quando tutto tace soffocando nella polvere, e gli unici in grado di parlare saremo solo noi.
Ma c’è sempre posto per qualche sprazzo di emozione a malapena concessaci: tanta generosità la dobbiamo a “Forlorn pt.2”, ammesso che di emozione si tratti. Preferirei definirla come affresco di uno scenario post-apocalittico, nel quale non stonerebbero comunque i due manichini in copertina. Altra traccia di grigio sentimentalismo malcelato è “The Sweet Hereafter”, il lato B di “Forlorn”, quello più commovente e colorato dai rintocchi di un pianoforte. Ma tutto il resto di “Strife” macina la stessa formula: forma astratta, enigmatica e confusa, contenuti da sviscerare e, perché no, da plasmare con l’immaginazione. Cos’è dunque in definitiva? Un lavoro contorto e molto chiuso in se stesso, e forse è meglio così, perchè rischierebbe di perdere il suo vero scopo: incrinare il silenzio della discordia, e ricordare quanto questa sia insensata e malata.
E forse, forse arriverà il giorno in cui tutti avranno il coraggio di chiedersi scusa.
“Le armi avanzano silenziosamente solo per scoprire che nulla è stato veramente ottenuto. Le antiche ingiustizie rimangono, i conflitti recenti si aggiungono a quelli passati. Tutto questo suona deprimente? Penso proprio di sì.”
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