Daniel Bejar, autore di tutti i brani ed unico elemento inamovibile dell'ensamble chiamato Destroyer, è affetto da una lucida follia, che si accompagna ad una specie di aura che distingue da sempre i "cavalli di razza"; di ciò mi ero già accorto ascoltando il suo precedente raccomandato lavoro, "Your Blues", con il quale l'ho, ahimè, tardivamente scoperto.

Il barbuto "Distruttore", infatti, è nell'agone musicale da almeno una decade, ponendosi alla testa di quell'armata multicolore proveniente dal Canada che si è data una "mission impossible": il trionfo di un pop qualitativo, talvolta orchestrale, ricco d'influenze soprattutto europee, l'art-rock in particolare, che non abbia come principale sua preoccupazione la scalata delle charts. A tal fine il contributo di Bejar come autore e chitarrista è fondamentale sia per principale progetto al quale partecipa, The New Pornographers, sorta di all stars canadese dell'indiepop nata verso la fine del passato millennio, sia come punto di riferimento per tutta la vitalissima scena che si muove tra Vancouver e Toronto, con artisti del calibro di The Dears, Stars, Feist, Apostle of Hustle, solo per citarne alcuni.

Con l'ultimo suo album "Rubies" egli conferma, fortunatamente per coloro che amano le sue dispari e prosperose melodie, di non essere guarito, anzi. Per certi aspetti l'impresa alla quale questa volta si è votato è ancora più complicata della precedente. Infatti, più che con "Your Blues", le influenze, le citazioni aumentano e l'accostamento di elementi musicali di generi apparentemente distanti divengono più arditi e sorprendenti. Con tutto quest'incandescente ed eterogeo materiale (il miglior pop d'ascendenza albionica, rock tra Bowie e T. Rex, la musica da camera, il folk americano, il blues) più d'uno si sarebbe scottato oppure avrebbe prodotto intrugli molto poco appetibili. Bejar e il suo gruppo riescono, invece, a dominarlo e a produrre canzoni che hanno un fascino perverso, finendo per attrarti come una calamita. Brani che spesso superano i cinque minuti, che non hanno fretta di concludere, multicentrici, che a volte traccheggiano pigramente su un arpeggio di chitarra o su un ritornello.

Già il primo, quello che dà il titolo all'album, sarebbe una presentazione di disarmante ingenuità, quasi autolesionistica, per il pop nove e passa minuti sono oggi più che mai un'eternità, se non vi fosse il sospetto che è stato posto lì proprio al fine di selezionare subito coloro che possono andare oltre, la minoranza che condivide i suoi stessi ideali estetici. Il brano sembra scritto e cantato nella prima parte da un Paddy McAloon dedito all'alcool e con un più caustico senso dell'umorismo, per poi perdere man mano la verve e l'elettricità, divenendo così un'acustica ed intima ballata; sia detto senza mezzi termini: altri, con gli spunti e le idee presenti qui solo, ci fanno un mezzo album.
"European Oils" è il brano più orecchiabile e solare, sarà difficile non canticchiarlo nelle giornate sì, con un finale in crescendo, ormai una specie di marchio di fabbrica, al quale, oltre al piano e ai cori, partecipa anche un assolo di chitarra elettrica di buona fattura. Così come si finirà per non poter fare a meno di canzoni come "Painter in Your Pocket", col suo incedere percussivo, la chitarra di Dan a ricamare indolenti melodie e un accattivante ritornello che compare verso la fine, non lasciandoti scampo; oppure di brani più tirati come "3000 Flowers", omaggio rispettoso ma non riverente al Duca Bianco. La versatilità e le potenzialità del nostro anche in campo più propriamente "rock" finiscono per sorprenderti soprattutto nel brano che chiude il lavoro, "Sick Priest Learns to Last Forever", un blues elettrico di vaga ispirazione hendrixiana.

Un album, quindi, denso e leggero, spensierato e malinconico allo stesso tempo, che conferma la classe pura e la smodata fantasia di Bejar, da songwriter di gran livello. Credo proprio che questi "rubini" faranno bella mostra nel personale diadema di fine anno.

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