È molto difficile scrivere di un gruppo che non ha eguali nel mio universo, di un album che mi ha fatto stropicciare gli occhi davanti all'imprevedibilità del bello. Difficile frugare fra le tonnellate di sottili emozioni che i dEUS, con In A Bar, Under The Sea, mi hanno regalato; difficile scegliere le piú evocative e metterle in parole. È per questo che, prima di procedere con la recensione, ne consiglio direttamente l'ascolto; a chiunque.
Il quintetto di Antwerpen aveva debuttato nel 1994 con Worst Case Scenario, mettendo in mostra già allora il proprio rock indefinibile, frutto di mille influenze (dai Velvet Underground ai Sonic Youth ai R.E.M.) ma soprattutto di una genialità del tutto personale.
In A Bar, Under The Sea, due anni dopo, conferma a tutti le promesse dell'esordio. Secondo me, le supera. Tom Barman, il leader egocentrico e delicato come la sua voce, lascia piú spazio agli altri genialoidi del gruppo nel song-writing, e ne viene fuori una varietà di stili sporca e abbagliante.
Si inizia con un assurdo, sguaiato pezzo acustico composto e cantato dal bassista Stef Kamil Carlens, e registrato al telefono (!); si passa per il pop-rock di Little Arythmetics nei cui secondi finali il chitarrista Craig Ward scatena le sue follie noise; per la allucinata e vogliosa Gimme The Heat (per questa canzone, che - attenzione - è la mia all-time favourite, devo ringraziare proprio il visionario Barman); per la bizzarra e dissonante A Shocking Lack Thereof del violinista Janzoons; per il punk di Memory Of A Festival; per il jazz rilassato di Nine Threads (scritta da Ward); per il post-grunge della bellissima Roses.
Il tutto tenuto insieme magicamente da un gusto per l'invenzione che - a volte diretta, a volte subdola - è la firma in tutti i loro album.
Era il settembre 1996. Il mio amico Livio mi porse un cd; "potrebbe piacerti", mi disse. Beh, sono passati sette anni e ancora non ne ho trovato uno che mi piaccia di piú. 5 stelle e lode.
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