Anno domini 2003 in dirittura d’arrivo e con questo fa quasi un lustro di silenzio da parte dEUS, dacchè l’ultima fatica dei belgi ancora porta la data del lontano marzo 99, quando con eco prossima allo zero e altrettanto impegno promozionale da parte Universal, vide la luce uno dei capolavori sotterranei del decennio andato, quell’”Ideal Crash” che disattese – e mai se ne potrà intuire invero la portata – le aspettative di coloro (non pochi) folgorati prima sulla via del febbrile “Worst Case Scenario” e successivamente del meno incisivo e più dispersivo “In A Bar Under The Sea”.

Scarto secco rispetto al passato, “The Ideal Crash” comprime nel breve volgere di 10 spartiti l’urgenza del talentuoso e visionario leader Tom Barman di sperimentazione sui suoni, al dì la degli evidenti limiti tecnici dovuti ai – fin troppi – cambi d’organico che negli ultimi anni falciarono il nucleo storico (e se il lato schizofrenico e obliquo dei primi lavori fosse frutto della mente malata di Stef Camil Karlens, ora negli Zita Swoon?).

Lasciato solo, Barman s’inventa – in 8 mesi di registrazioni ai limiti della follia, con turni massacranti di 15 ore al giorno di prove e in tutto pochi giorni di relativa pace – un disco di rottura definitiva, ibrido nervoso di pulsazioni Massive Attack (“Let's See Who Goes Down First ”), epicità Radiohead (“One Advice, Space”), innesti elettronici di matrice elettroclash (“Everybody’s Weird”) e furore grunge (l’iniziale “Put The Freaks Up Front”) .

“Avevamo gli abbozzi di queste 10 canzoni, e da qui non ci si muoveva in altra direzione se non nel creare il miglior suono per ognuna di esse. Volevo che queste 10 canzoni fuoriuscissero dalle casse come un pugno nello stomaco” (Tom Barman).

Per quanto mi riguarda, ho divorato i solchi di quest’opera fino a dissossarla, nella frenesia tipica degli amori giovanili, quelli – per intenderci – che non torneranno più e che portano con sé la delicata malinconia dei giorni giusti che son passati.

Abbandonate le pazzie trasversali dei primi lavori, dunque, i dEUS confezionano la loro visione di pop song perfetta, dannatamente normale eppure inevitabilmente avanti, sia rispetto ai canoni tipici del tempo, sia come atto artistico – a sé - coraggioso. Nelle pieghe di “Magdalena” o della meravigliosa “Sister Dew” scorre il sangue e il sudore di qualcuno che ha preteso per se – pur nel rischio ahimè confermato – di percorrere la strada meno battuta, per chi suona e per chi ascolta. Ed è anche per questo che siamo diversi (W. Withman dixit).

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