C'è sempre stato qualcosa di triste in maniera disturbante, nelle canzoni di Devendra Banhart, e ora è piu' chiaro che mai.
Giunto all'album numero sette della carriera, con una notorietà ormai enorme, che ha sempre cercato di gestire tra ironia, innocenza e gusto del surreale, sembra che il cantautore taxano/venezuelano sia ormai arrivato ad un punto nodale: o di qui o di là. O nel mondo degli emarginati, pazzi e sognatori morti di fame come Daniel Johnston, o nel mondo della gente che conta, della fama e delle versioni radio-friendly, e, non so se ci siano davvero vie di mezzo. Il nostro eroe è ormai cresciuto ed è scivolato nel secondo mondo, quello che a noi tutti piace meno, e non sembra che ci sia molto da fare. Non sentiremo più "lend me your teeth" o altre stramberie. E' sempre un pò triste quando un bambino cresce e diventa un adulto serio, si sposa, diventa noioso e finisce di straparlare, ma tant'è. Per dirla com'è: questo disco non vale molto, nonostante la cura negli arrangiamenti, la qualità comunque buona delle canzoni (che in realtà, ce ne fossero, ma da lui ci si aspetta sempre di più. Dove ha seppellito il gemello pazzoide che ha scritto "Rejoicing the hands"?), e nonostante il limite al numero delle canzoni, è un disco che a tratti annoia, a tratti irrita, e che in generale, non convince.
"What will we be" segue un pò il solco tracciato da "Cripple Crow" e "Smokey...", in cui un pastiche di generi (tropicalismo, folk, reggae, rock, ballads) si fondono. Peccato che qui, le rivisitazioni (addirittura jazzistiche, come in "Chin Chin e Muck Muck") sono pretenziose e sterili, alcune canzoni sono frutto di cut ups poco ispirati (come "Rats", "Maria Leonza"), e altre francamente brutte ("Angelika"). A risollevare l'album ci sono due belle canzoni seventy pop, nello stile del precedente "Surfing" firmato Megapuss (che se non altro aveva il pregio del cazzeggio e di un meraviglioso retro copertina), "Baby" e "Goin' back at the place" e un glam-disco molto molto queer (ma chi ci crede? non scherziamo!) che ricorda gli MGMT "16th & Valencia". Perle (seriamente) del disco sono le due ecotplasmatiche ballate "First song for B" e "Last song for B", inquietanti quanto dolcissime, in cui pare di rivedere l'artista che fu, quello che probabilmente ha messo troppo di sè in quello che ha fatto, e ora non ha piu' molto da mostrarci.
Indietro non si torna, e mi chiedo se all'imborghesimento, se alla noia e alla serietà ci sia un rimedio, che non sia troppo drastico...
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