Il caso dei Devo è singolare. Tanto geniali ed innovativi al loro esordio, tanto zotici e triviali in seguito, nello sforzo di blandire il gusto del pubblico, cedendo all’arroganza dell’ambizione lucrosa. Eppure sono stati, con Pere Ubu, Residents, Suicide, Patti Smith, Talking Heads, Television e Blondie, i padri fondatori della New Wave. L’onda anomala che fu, con evidenza dalla seconda metà dei ’70 fino ai primi ‘80, non già una scuola o un movimento compatto, ma una propensione alla ricerca fuori dagli schemi, introspettiva, smaniosa di rompere con le convenzioni, in discontinuità con tutto, anche con il Punk .
Gerald V. Casale era avvezzo a ragionare in modo goffo, più per immagini che per idee. Mark Mothersbaugh non riusciva a classificare la vita, non reputando gli enunciati all’altezza delle proprie azioni. Quindi si riteneva, allo stesso modo, vivo quando leggeva, scriveva, disegnava, dormiva, sognava, mangiava, vomitava. Senza contrapposizioni.
Jerry e Mark erano regolarmente iscritti alla Kent State University ed erano tra i ragazzi che protestavano dopo l’invasione della Cambogia voluta da Nixon, anche quel fatidico 4 maggio 1970, quando la Guardia Nazionale aprì il fuoco contro gli studenti del Campus uccidendo Sandra Lee Scheuer, William Schroeder, Allison Krause e Jeffry Glen Miller. Questi ultimi due erano amici stretti dei nostri. Certe storie ti segnano. Neil Young, per esempio, scrisse di getto “Ohio”.
L’irriverenza del teatro concettuale ove Gerald interpretava l’uomo clistere accanto all’uomo cacca, non sembrava –invero- sufficiente né come reazione, né come direzione artistica. Neanche la passione smodata di Mark per le decalcomanie con profili di persone che vomitano. Erano passatempi fini a se stessi. Non bastavano. Ok il dadaismo, ma come passare oltre l’ingenuità delle idee degli hippy, la tragedia della perdita e il lutto?
L’Università del Kent restò chiusa per tre mesi. Allora nacquero, forse, i Devo. La musica era un collante. I due amavano il Blues e il Prog., Captain Beefheart e i primi Roxy Music. Concepirono lentamente, ma inesorabilmente, la nuova musica, quella de-evoluta, quella New Wave. Araldi di pose nevrotiche, algide, stolide, rigettarono l’ideologia degli anni ’60 e altresì la tendenza all’edonismo coeva.
La teoria della disumanizzazione, che risale almeno al 1972, venne preconizzata e sviluppata proprio alla Kent. “In The Beginning Was The End: The Truth About The De-Evolution”, il loro cortometraggio, diretto dall’amico Chuck Statler, costituì la base ideologica e profetica del gruppo. Fu presentato al Film Festival di Ann Arbor nel 1976. Cercavano così una via alla protesta, sublimandola, in una visione fantascientifica anticapitalistica, che urtasse almeno con la forza della denuncia. E della satira.
Il nucleo teorico della de-Evoluzione contrasta Charles Darwin: l’uomo vira dall’adattamento alla natura a quello dell’ambiente tecnologico. In un processo di massificazione eterodiretta. Verso la spersonalizzazione meccanica e meccanicistica. La fiducia incondizionata nella tecnologia che poi opprime, svilisce, asservisce l’uomo, cancella ogni residuo etico: ciò che è possibile è anche lecito, anzi dovuto. L’uomo diviene un ibrido, androide e ameboide. Tra gli ispiratori: Burroghs, Philip K. Dick, i predicatori fondamentalisti e settari.
Così creano scenari, coreografie, personaggi eclatanti e fantomatici: Booji Boy, l’adulto sempliciotto con faccia da bambino scimunito e bietolone (che guarda caso si muove come un idiota), l’omino cinese con le sue oscuranti veggenze trascritte su fogli volanti, un dittatore hitleriano, tale General Boy, padre di Booji. I Devo vestivano uguale per essere anonimi, indistinguibili, seriali. Una squadra di manutentori turnisti di un impianto nucleare. Addetti alla sorveglianza della società delle macchine. Tecnocratica.
Adottano anche travestimenti da patate bollite, condom, robot, omini lego, umanoidi. Sono golem, assecondando il mito dell’uomo postmoderno nato nel XVI secolo col Rabbi Jehudah Loew ben Bezalel, il Maharal di Praga, e col Dottor Johannes Faustus, e proseguito fino alla cibernetica di Norbert Wierner. Il cattivo gusto poi, il Kitsch era autoimposto. Ma divennero, ciò non di meno, i Devo, un affare musicale e visivo. D’impatto. D’eccezione. Esilarante.
Se fosse critica corrosiva o celebrazione subdola del Rock commercializzato, coseggiato, mercificato, cioè divenuto sovrastruttura del capitale, a ciascuno la sentenza.
Poi, musicalmente, volevano essere la “the next big thing”, cercavano clamore e, infondo, avevano lavorato oltre un quinquennio per approdare a un vero studio, con un vero produttore. Un non musicista come Eno. O Eno stesso. Avevano saltato a piè pari il Punk, come i Pere Ubu, ma se questi si contentavano dello status di band di culto, underground, di nicchia, loro invece erano a caccia di opportunità. La band di Akron, Ohio, faceva un genere che chiameremmo Punk Rock elettronico, New Wave legata, allora, ad un immaginario futuribile e tragicomico. La Line up stabilizzata prevedeva i fratelli Mothersbaugh Mark, voce, e Bob, lead guitar, e i fratelli Casale Gerald V., basso, e Bob, chitarra. Il batterista, infine, fu il metronomico Alan Myers.
Modi e forme: linguaggio psicolabile, teso, nevrotico, a scatti. Brani, al più, veloci e roboanti, con scarso gradiente umano, cioè una umanità fortemente depotenziata. Dall’ibridazione dell’uomo e della macchina proviene una musica inquietante, disturbante. Ma anche derisoria, parodistica, surreale. Una epicità contraffatta. In un gioco –continuo- delle mezze verità, come nel paradosso di Achille e la tartaruga. MC’s 5, Stooges, Bowie, Eno, vagheggiamenti zappiani, Faust, Tangerine Dream, Kraftwerk, e ancora la melodia bubblegum rivista dai Ramones, l’appeal dei Blondie. In definitiva uno stile a metà tra il postmoderno e lo scabro grutungio/ostrogoto.
I sintetizzatori disegnano scenari rumoristici su cui si stagliano chitarre aspre, mentre i ritmi sincopati, sovente irregolari, tendono alla concitazione e allo spasmo. Canto freddo e meccanico, spersonalizzato, ma capace del più grottesco isterismo. È questo il suo tratto più umano, per quanto maniacale. Mark Mothersbaugh appare –appunto- nevrotico e psicopatico, senza troppa simulazione, senza troppa alterigia.
“Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!” fu epocale, un capolavoro folle e geniale. Canzoni sferraglianti, stralunate, ossessive. Ritmi centrifughi, abbreviati, schizoidi, voci concitate. Tra distorsioni elettroniche, esasperate, chitarre Rock e Sperimentazione, in uno stile robotico –zoppicante, rachitico- impulsivo e isterico. Nulla da spartire col Pop di prima, né anticamera di quello a venire. Nell’opera, prodotta (come il primo Talking Heads) da Brian Eno, confluiscono idee maturate negli anni, dal 1974 almeno, se non prima. Invero un cumulo enorme di invenzioni goliardiche, intuizioni acutissime, fantasie insensate e trovate pacchiane. La lunga incubazione è importante, quanto, o più della produzione dell’ex Roxy. Essa viene testimoniata, “epigrammata” proprio negli “Hardcore Devo”.
Con “Duty Now For The Future”, 1979, dal sound alleggerito e orecchiabile, ma soprattutto con “Freedom Of Coiche”, 1980, arrivò la definitiva consacrazione commerciale (i.e. oltre un milione di dischi venduti). Via l’avanguardia e la sperimentazione rumorista, inevitabilmente. Le provocazioni erano oramai di maniera contestualmente ad un richiamo sempre più permeabile al gusto del pubblico (che loro stessi invero contribuivano a plasmare). Una allegria sempre meno tesa, sempre più scanzonata, disillusa, senza più poterne avvertire l’indice di affettazione. L’estetica Dance Rock, sempre più facile e (abbastanza) intelligente prendeva il sopravvento. E così, per i più, i Devo prototipici sono esattamente questi di “Girl U Want” e “Whip it”. “New Traditionalists”, 1981, si rivelò una parziale conferma (stile) e smentita (vendite), mentre, nel 1990, con “Smooth Noodle Maps”, tentarono di entrare nella scena Techno. Opere via via più commerciali, certo, ma non brutte, non del tutto disprezzabili, anche attraenti, dignitose, di buon Pop eccentrico.
In un certo senso furono riassorbiti dal loro disprezzo per il capitalismo e quindi dalla sprovvedutezza delle loro stesse idee. Certo la rivoluzione fu “Question:/Answer:”. Quella cambiò la storia della Popular Music. Ma –question- quanti capolavori può fare una band di Akron? Answer: c’è un tempo per la musica creativa e c’è un tempo per la musica da consumare. “Tempo delle pietre gettate, tempo per le pietre raccolte”. (Qohelet 3, 5)
“Devo – Hardcore Devo 1974-1977 Volume 1”, Rykodisc 1990
“Devo – Hardcore Devo 1974-1977 Volume 2”, Rykodisc 1991
Oppure la loro somma in “Devo – Hardcore”, Superior Viaduct 2013.
Si tratta di due antologie, pubblicate dalla Rykodisc, di registrazioni inedite e demo tapes incisi su un quattro piste, realizzate nel quadriennio che precede la pubblicazione dell’LP d’esordio. Alcuni brani , divenendo poi forieri della buona nomea del gruppo, sarebbero stati reincisi ed inseriti negli album ufficiali, o su “Devo Live”, la maggior parte però no.
Sono stati ristampati in un unico-doppio CD nel 2013, dalla Superior Viaduct, con altri quattro brani addizionali (tra cui l’hapax Folk "Doghouse Doghouse"). Si tratta, in sintesi, di idiot-song. Stupende. Notevolissime naturalmente. Per fan e curiosi delle de-evoluzioni e della meglio gioventù ohioense. E, per i biografi, dati gli avvicendamenti alla batteria, dove si certifica perfino la presenza di un terzo fratello Mothersbaugh, Jim. Ci sono brani bellissimi da collezionare. Scarni e sfolgoranti. Una sorprendente coesione d’insieme. Perdetevi in questi meandri, nell’entusiasmo sintetico, nelle intuizioni acerbe.
“Hardcore” Vol.1, è il lato, se così si può dire, più Pop. È contraddistinto da ritmi robotici senza melodia, da astrattismo e rancori misogini. Blues alieni, autocelebrazioni, goliardate tronfie(es. “I need a chick / to suck my dick”), canzoni grezze, cupe, intriganti, miniature più che abbozzi. E siamo spesso vicini al minimalismo dei Residents, a quel sound crudo e atipico (in primis “Golden Energy”)
Tra i brani che diverranno celebri, il manifesto “Joko Homo”, la destrutturazione di “Satisfaction” e “Mongoloid”, ovvero l’elogio alla diversità.
Poi “Mechanical Man” con i suoni spenti del synth, rumori di elasici che schizzano all’impazzata, una trappola per topi a scatto e il vocoder in un fraseggio monocorde e cibernetico tra gli elettrodomestici di un seminterrato che sembra una sonda spaziale.
La sarcastica e riuscita satira di “Social Fool”, alternativamente solenne ed orecchiabile, incazzata con la società, i genitori ed ogni autoritarismo. Sintetizzatori che implodono. Voce paranoica e dolente.
Le veloci, vivaci e facete “I’am A Potato”, forte dello scioglilingua “What happens next? / De-evolution self-execution no-solution” “e “Uglatto”, caratterizzata dai versi ” Fat Oldsmobilo / A puffed potato / This Roman say: / Ugh-latto / You, a bad tomato / Speak Esperanto / So desperato / And constipato / This Roman nose / You're Uglatto”.
“Midget”, funky alieno più chitarra pastosa, canto insulso a più voci che si sovrappongono e incastrano, figlio della minorazione e della demenza più divergente. Come “Stop And Listen”, sciabordio di coretti Doo-wop baciati dalle grasse camene.
Hardcore Vol.2. Anche qui non ci troviamo tanto di fronte a versi eolico-coriambici, quanto a scorribande sperimentali, più –e meglio- che nel Vol.1: blues elettrostatici, scioglilingua, mimesi rumorista, momenti epicheggianti (vedi “All of us”), “Fontane di sporcizia”, depressioni sintetiche montanti, frignio adenoidale, ostracismo (“I been refused / I lost my shoes”), medicine sbagliate, “Cani della democrazia”, cyber-spie, una viziosa fräulein desiderata dai nostri, tirate di corda, allegre scorribande r’n’r ( come “Plan For U”). Non mancano l’enfasi caricaturista, la boria e la ricerca del ridicolo, una non saltuaria lentezza tangibile e monocorde.
Negli Hardcore tapes, in effetti, “scompaiono” spesso la velocità e l’urgenza. Vengono nascoste, in favore di atmosfere lugubri ed apocalittiche. Almeno abbozzate. Qualcuno, con cognizione di causa, ricorda persino che il garage dove incidevano non era riscaldato e nei rigidi inverni, suonavano gli strumenti in condizioni improbabili e con i guanti di lana. Si tratta, se vogliamo, di quel pizzico di casualità che arricchisce sempre il genio compositivo. Sarà.
In rassegna: “Booji Boy Funeral”, brano strumentale con synth pesanti a intessere e stessere un funerale atmosferico. Un misto di pietà e paura, praticamente gli elementi della tragedia aristotelica.
“Bamboo Bimbo” paranoica e demenziale. Spietata. Strofe graffianti che donano al pezzo la sua tavolozza di ruggine ed ambra. Una pantomima lasciva.
“Goo Goo Itch”, melodismo bubble gum in un ritornello scanzonato, stravagante e clownesco. Zappiano. Un siparietto assurdo.
“Let’s Go”, una sorta di sconclusionato e recalcitrante inno olimpico.
“Bottled up” è una cosa demenziale eccezionalmente riuscita. Uno spasso corrivo e affabile.
Trovate divertenti, satiriche, spiazzanti, un sound già sufficientemente definito in questo tempo –importante- di gestazione. Questa summa ha il pregio di mostrare le idee e questi “re nudi”, di testimoniarne abbondantemente il talento autoctono, la gavetta, le perizie e le peripezie, e, ancora, l’inverosimile afflato auratico, insomma, tutto ciò che sta dietro a “Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!”.
È, in definitiva, “Question:/Answer:” dietro allo specchio.
In seguito, il rischio sarà che non ci sia più nessuno nello specchio.
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