The Sophisticated Giant: quale miglior definizione per l'altissimo, filiforme ed elegante tenorsassofonista Dexter Gordon. Una stupenda e fondamentale figura del jazz, incarnazione magnifica di ispirazione, genio e stile, così come del più completo campionario di eccessi e sregolatezze, onnipresente corona spinata della sua arte.
Dex fu uno dei più influenti jazzmen a partire dagli anni '40 del secolo scorso, grazie ad un sound unico e immediatamente riconoscibile, pieno e spazioso (caratteristiche in parte dovute proprio alla sua non comune altezza), sintesi mirabile fra la maniera di Lester Young e quella di Coleman Hawkins, senza troppa derivatività dal totem parkeriano. Il suo stile, ora asciutto e ruvido, ora sinuoso e avvolgente, con la caratteristica tendenza a suonare lay back, sempre dietro il tempo, si impose come un modello di classe e virtuosismo che, sebbene meno rivoluzionario rispetto ai percorsi di Parker o di Coltrane, non mancò di influenzare diverse generazioni di tenorsassofonisti, fino ai giorni nostri.
Gordon, cresciuto nella middle class losangelina, muove rapidamente i primi passi sulla scena americana infilando una serie di collaborazioni eccellenti con artisti del calibro di Lionel Hampton, Tadd Dameron, Charles Mingus, Louis Armstrong, Dizzy Gillespie e Charlie Parker. Siamo nei primi anni '50, quando il nostro inizia ad avvitarsi nella perversa spirale della dipendenza da droga ed alcool, piaga della quale non riuscirà mai a liberarsi. Nel 1962 riceve un invito per suonare nel tempio europeo del jazz, il club Ronnie Scott di Londra. L'accoglienza trionfale che gli riserva il Vecchio Continente lo entusiasma al punto tale da indurlo ad una permanenza prolungata di ben 15 anni, spesi suonando e vivendo prevalentemente tra Parigi e Copenaghen, ed incidendo dischi praticamente come "espatriato". Proprio dal periodo parigino degli anni '60 scaturiscono un manipolo di album eccezionali, tutti per la Blue Note ("Doin' Allright", "Dexter Calling", il celeberrimo "Go", "A Swingin' Affair", "One Flight Up", "Gettin' Around" e, appunto, "Our Man In Paris"), che oggi sono considerati indubitabilmente i suoi capolavori.
Questo "Our Man In Paris", che si contende con "Go" il posto al vertice della parabola artistica di Dex, rappresenta il tipico cliché del potenziale disastro annunziato che si trasforma, per intercessione di chissà quale divinità sincopata, in un evento magico, una delle più straordinarie performance che la Blue Note a tutt'oggi possa annoverare nel suo blasonato catalogo. La registrazione, infatti, originariamente programmata per un album di nuove composizioni di Gordon, si blocca prima ancora di iniziare, a causa dell' improvviso forfeit del pianista Kenny Drew, rimpiazzato all'ultimo minuto da Bud Powell (alla faccia del rimpiazzo, verrebbe da dire!): quest'ultimo, reclutato con un così breve preavviso, pretende e ottiene di registrare solo degli standard. Assieme a Gordon e Powell il quartetto annovera, poi, il superbo batterista Kenny Clarke (tutti e tre in quel momento nel ruolo di "Americani a Parigi" , espatriati di lusso del jazz) e l' eccellente contrabbassista "indigeno" Pierre Michelot, tra gli esponenti di punta della scena francese. La session, comunque, parte sulla base di presupposti non proprio rassicuranti, con Gordon non ancora sbocciato artisticamente, Powell, pur grandissimo, ma sul viale del tramonto, e, soprattutto, con l'incognita della lontananza dagli studi americani della Blue Note e dalle mani sapienti di Rudy Van Gelder.
Misteriosamente, quel 23 Maggio 1963 a Parigi, tutti questi presagi avversi si dissolvono come neve al sole ed il quartetto di Gordon sforna sette standard praticamente perfetti. Dex suona rilassato, forse come non mai, confidente, a suo agio con i compagni e con i brani da interpretare. Le sue linee sono nitide, complete, fresche e si sciolgono nel magma creato dal pianismo preciso e complesso, carico di melodie e di swing, di un Powell monumentale. Il contrappunto ritmico offerto da Clarke e Michelot è impeccabile, guizzante, tirato e coinvolgente. Volano alte, così , le perle parkeriane "Scrapple From The Apple" e "A Night In Tunisia": in particolare per quest' ultima va sottolineata la sconvolgente assertività con la quale Gordon gestisce il notissimo break di 4 battute, potente come Bird, ma suonando la metà di note. Languide e delicate scorrono le ballad "Willow Weep For Me" e "Stairway To The Stars", con le quali Dex sciorina un magistero assoluto nell'interpretazione e gestione dei tempi lenti. Emozionanti sono, infine, le letture di "Broadway" , vero classico anni '40, e delle due bonus track aggiunte alla track list dell'LP originario, "Our Love Is Here To Stay", omaggio a Gershwin, e l'improvvisazione in trio su "Like Someone In Love", con Powell in stato di grazia.
"Our Man In Paris", insomma, rientra indubbiamente tra gli album che hanno fatto la storia della musica neroamericana, e conferisce a Dexster Gordon un posto di privilegio tra i massimi esponenti del genere.
In seguito, dopo aver spopolato negli anni '60, essersi eclissato nei '70, tra droghe e stravizi, nel 1986 Dex viene iconizzato in "Round Midnight", poetico tributo cinematografico al jazz di Bertrand Tavernier: la commovente interpretazione nei panni di jazzista dannatamente simile a Lester Young gli guadagnò una delle nomination agli Oscar più giuste e rispettate di sempre, ultimo alloro prima della morte, sopraggiunta il 25 aprile del 1990, all'età di 67 anni.
Per molti, in quel film riuscì a dare voce, forma e suono ad una musica e ad uno stile di vita, come nessuno avrebbe potuto mai fare. Tra quei molti ci sono anch'io.
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