La personalità è una delle virtù fondamentali per chi vuole farsi ricordare facendo musica rock. Quando ti ritrovi con in mano tre miseri strumenti e i tuoi modelli sono i “soliti” Chuck Berry, Little Richard, Jerry Lee Lewis, insomma quelli a cui si deve la nascita di questo genere musicale, devi essere in grado di inventarti qualcosa di particolare, per dare sapore ad una ricetta che, a fine anni ‘80, sapeva oramai di minestra riscaldata. Lo hanno più volte dato per morto, ma il “vecchio” rock’n’roll ha saputo, di stagione in stagione, riproporsi con una carica innovativa sorprendente, se si pensa che alla fine sono sempre le solite note, le solite scale, le solite ritmiche. Ma se gli spartiti non paiono essere così mutati nel corso del tempo, è l’esecuzione ad aver fatto la differenza.
Rick Sims (uno che di personalità ne aveva da vendere), cantante/chitarrista di Chicago, raccolse e rielaborò la lezione dei maestri degli anni ‘50 come solo un punk o un indie-rocker degli anni ‘80 avrebbe saputo fare. Non uno sterile revival, quello operato da Sims, ma un cosciente filtro del rock’n’roll attraverso le conquiste stilistiche dell’hardcore e del noise-rock. Per ottenere ciò, Sims fece leva su di un chitarrismo tanto eclettico quanto infuocato e su di un istrionismo vocale travolgente: demoniaco, isterico, psicotico, imprevedibile, vitalista, grintoso, edonista, il falsetto di Sims è uno dei più ispirati e trascinanti dell’epoca e del genere. Lo accompagnava una sezione ritmica impeccabile (Brad Sims, Joe Evans), con particolare menzione del batterista Brad (fratello di Rick), preciso, potente e al contempo intelligente e fantasioso.
Il disco “Hey Judester” (1988), opera seconda dei Didjits, si può dividere in due parti: la prima, più originale nella revisione dei canoni del rock’n’roll; la seconda, più fedele alla tradizione. Le prime tre canzoni valgono da manifesto della loro estetica: il rockabilly invasato di “Max Wedge”, le dissonanze di “Stingray”, le chitarre taglienti, il refrain scorato e le improvvise convulsioni di “Plate In My Head”, rivelano come il rock dei Didjits stia a metà strada tra la canonica pulsazione boogie, il punk melodico e conciso dei concittadini Naked Raygun e deragliamenti armonici di ogni sorta. In “Skull Baby” viene abbandonato il ritmo frenetico, e si fa strada un riff stridulo (parente stretto di quello di “Bone Machine” dei Pixies), un’andatura ossessiva, morbosa, con Sims che sveste per un attimo i panni dello shouter e indossa quelli di un Lux Interior leggermente più virato sul chiaro, ma altrettanto maniacale, mentre nel finale alla Sonic Youth, l’armonia si disintegra e si dilegua in un liquame debordante e malsano. “Under The Christmas Fish” è forse il capolavoro del disco, nonchè il brano più atipico: ogni elemento, dalla ritmica zoppicante, al canto espressionista e disperato (tra Thomas, Cave e Yow), fino alla nevrastenia di chitarre tese a dar corpo ad un clima ansiogeno e soffocante, concorre a dimostrare come l’influenza dei Pere Ubu (sì, proprio loro) si sia estesa per tutto il decennio successivo (e anche oltre), arrivando a contagiare i gruppi apparentemente più immuni al virus della “danza moderna”. Ad “Axhandle” spetta invece la palma del vortice più pirotecnico: basso in primo piano, canto mozzafiato, e una chitarra a sbizzarrirsi, ora stridente, ora assente, ora dedita ad un jinjle-janlge dilatato di mould-iana memoria.
La parte più “calligrafica” del disco rivisita i generi rock della tradizione, non senza mettere sul tavolo i consueti ritmi concitati, le chitarre triturate, i vocalizzi bestiali, con l’aggiunta di sporadiche pianole devastate. Ed ecco allora che i Didjits passano in rassegna ora il funk (“King Carp”), ora l’hard-rock (“Stampo Knee Grinder”), ora il metal (“Joliet”), ora il boogie (“Lucille”), ora il rock’n’roll (“Balls…Fire”; dite un po’: cosa vi ricorda il titolo?), fino al garage (“Dad”). I Didjits migliori restano, a mio avviso, quelli della prima parte del disco, che da sola vale il prezzo del biglietto. La seconda parte, pur tenendosi ben lontano dal puro revival, vale meno ed è forse quella che impedisce a “Hey Judester” di qualificarsi come opera di valore assoluto. Ciononostante i Didjits hanno dimostrato, con efficacia e sapienza, cosa significhi suonare classici e moderni allo stesso tempo, genuini senza essere ingenui, in virtù dell’intelligenza, dell’ispirazione e, ovviamente, della personalità.
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