Adoro gli australiani Died Pretty; autori di un esordio, l'indimenticabile Free Dirt datato 1986, dove in sapiente maniera pescavano a mani basse da Suicide, Velvet Underground, Television e fin anche Doors. Imbastendo un prezioso sound tra Post-Punk ed acidosa psichedelia; dei nostalgici capaci di scrivere meraviglie. Un nuovo tradizionalismo quello della band di Ronald Peno, una delle voci più passionali degli anni ottanta-novanta, e del chitarrista Brett Myers.

Nel 1991, dopo aver girovagato con alterne fortune per il mondo, dicidono di rientrare in patria per registrare il quarto disco; per me un altro indiscusso capolavoro. Superiore, udite udite, persino al tanto acclamato (giustamente) esordio del quale ho parlato appena qui sopra. Giudizio il mio personalissimo che verrà di certo non condiviso da molti di voi (che ne dite di tutto ciò Pinhead ed imasoluman?).

Devo per forza di cose aprire una parentesi a questo punto del mio scrivere: Doughboy Hollow è uno dei miei dischi assoluti di tutti gli anni novanta. Sullo stesso piano di album per me epocali composti da Primus, God Machine, Soundgarden, Death, Depeche Mode. E come sempre accade in questi casi ho delle difficoltà enormi a parlare di lavori così importanti che ho marchiato a fuoco nel mio DNA; Primus a parte perchè quando si tratta del cugggino Les tutte le mie "paure" di mettermi in gioco spariscono come d'incanto. Con questo non voglio trovare giustificazioni e sarei contentissimo di aprire un dibattito sia sul disco dei Died Pretty, che a breve andrò a raccontare, sia su questa mia fobia che in qualche modo mi perseguita da decenni.

Ma giunto è il tempo per i ragazzi di Sydney.

L'iimagine di copertina non fa altro che mettere da subito in risalto quell'austera malinconia tipica della band; poi arrivano le canzoni che hanno perso gran parte del fascinoso umore psichedelico così presente almeno nei primi dischi. Si orientano con decisione dalle parti di un ricco e bilanciato Rock che in alcuni momenti, vedi l'iniziale "Doused", strizza l'occhio ai conterranei Church di quelle medesime annate. Evidente addirittura una virata Pop nell'ascolto della leggera "D.C." impreziosita dalla presenza di leggiadre e solari tastiere che almeno per una volta mettono in secondo piano quel velo di tristezza così evidente in altri momenti.

Si prosegue con la dolce e seducente armonia di "Sweetheart" che lascia subito dopo il posto all'impetuoso incedere della rocciosa "Godbless" (che non avrebbe sfigurato nel repertorio di certi ragazzacci di Athens periodo Document - Green), con una sezione ritmica che martella dal primo all'ultimo secondo. E si arriva al capolavoro di tutto l'album: i sei minuti della lenta, avvolgente, drammatica nel suo sviluppo "Satisfied". E qui il padrone della scena è la voce di Ronald calda, fluida e così particolare; il dilatato brano scivola via fino ad un assolo della sei corde di Brett che d'improvviso lascia terreno libero ad un suono di tastiere che profuma, odora di Ray Manzarek. Il brano decolla e si avvia ad un finale che lascio alla vostra fervida immaginazione: una meraviglia che mi regala sempre brividi inenarrabili. Il misterioso potere della Musica sul mio animo.

"Stop Myself", sia nel cantato che nell'andamento sonoro, apre ancora il mio personale portale dei ricordi perchè sembra di udire Grant Hart quando la metteva sul piano squisitamente Pop negli ultimi lavori degli Husker Du (ma quante band mi è toccato citare quest'oggi!?!). Ho seguito un track by track fino a questo punto, senza saltare un solo brano; ma è tempo di fermarmi, un po' a malincuore visto che mancano ancora cinque canzoni che meriterrebbero di essere omaggiate.

Un disco favoloso da massimo dei voti.

Ascoltatelo; fidatevi ciecamente del DeMa...THE LOVE SONG...

Ad Maiora.

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