Chissà come se la cavava Rob Younger alla batteria ...

Per informazioni, chiedere ai Final Solution che lo ingaggiarono per qualche mese nel lontano 1983, per battere i tamburi per loro.

«Sai che roba, i Final Solution! Si vede che Rob era messo proprio male, per aver accettato.» starà già berciando qualcuno.

In effetti, raccontata così, la blasfema esclamazione non fa una piega, ma se poi uno pensa che Rob abbandonò per supportare con i New Christs il tour australiano di Iggy Pop e, soprattutto, che i Final Solution da lì a poco cambiarono la ragione sociale in Died Pretty, magari fa tutto un altro effetto.

Ed allora ci riprovo ... Ma lo sapevate che Rob Younger ha suonato la batteria nei Final Solution, antesignani dei Died Pretty, uno dei più grandi gruppi degli anni Ottanta?

Che poi, molti li ricordano solo per l'epocale «Free Dirt», a vagare idealmente per deserti insieme a Giant Sand e Thin White Rope; e se penso che nel triennio 1985/1987 hanno visto la luce dischi come «Valley Of Rain», «Exploring The Axis», «Free Dirt», «Ballad Of A Thin Line Man» e «Moonhead», mi prende lo sconforto a contemplare l'attuale desolazione.

Dato per scontato che «Free Dirt» lo conosciate (quasi) tutti, meno scontato è rivangare le innumerevoli gemme che i Died Pretty forgiarono ben prima di approdare a «Free Dirt» e che trovate nello straordinario «Pre Deity».

Una su tutte, la più lucente, è «Mirror Blues», per me l'archetipo del garage evoluto.

Ma perché, anche il garage può evolvere? Assolutamente sì, e basta pensare ai Plan 9 ed al loro «Keep Your Cool And Read The Rules» (a proposito, sempre 1985), inarrivabile summa del genere.

Quello che, però, fa impressione è che, a differenza dei Plan 9 (partiti dalle solide basi garagiste di «Frustration» e «Dealing With The Dead»), i Died Pretty con il garage hanno poco o niente da spartire, considerato che l'ispirazione fondamentale la traggono da un punto indefinito tra i confini di un triangolo quanto mai scaleno, i cui vertici sono Doors, Velvet Underground e Television.

Ma non so come, nel 1984 vomitano i dieci minuti di «Mirror Blues», a ruota dello splendido esordio «Out Of The Unknown / World Without».

Apro una parentesi ... Quando ero un adolescente divoratore di riviste musicali, facilmente influenzabile dai criticoni, andai in fissa con due termini molto in voga in certi contesti: catartico e mesmerico. Ancora oggi, non so bene quale ne sia il significato, ma «Mirror Blues» è per me l'apice della catarsi e del mesmerismo ... Chiusa la parentesi.

Facezie a parte, catalogare «Mirror Blues» è impresa titanica, scisso com'è tra forma e sostanza.

La forma, quella sì, è indubbiamente garage all'ennesima potenza, un assalto all'arma bianca a base di una sezione ritmica martellante, e chitarre distorte e feedback, ed un organo prepotente che ti sfonda i timpani, ed una voce annoiata il giusto; il tutto, in piena sintonia con il senso di minaccia incombente e di disordine in procinto di scatenarsi che promana dalla bella ed evocativa copertina (e, per inciso, che belle tutte le copertine dei vinili editi dalla Citadel). Confidando che la vostra mente non vacilli, vi potrei riferire come, per il chitarrista Brett Myers, il brano dovrebbe rappresentare un guazzabuglio di Gun Club, Television, James Chance & The Contortions, ed un pizzico di Suicide, Pere Ubu e Modern Lovers, tanto per gradire: riuscite a concepire qualcosa del genere?

La sostanza è ben oltre il garage: un solido muro di suono costruito su due arrembanti accordi dettati dall'organista Frank Brunetti, un marasma sonico ed in apparenza senza costrutto; ma tutto ha un senso in «Mirror Blues» e non c'è, in questi dieci minuti, una sola nota fuori posto né un secondo di troppo; un mantra allucinato, monocorde e monotono, di violenza e tensione pari a quelle che solo certi Velvet (colti al crocicchio tra «White Light White Heat» ed «I Heard Her Call My Name») ed ancor più gli Stooges sapevano provocare. Non a caso, «Mirror Blues» mi richiama alla mente, immancabilmente, «1970» in «Funhouse», solo senza il sax di Steven Mackay; quello scompiglio lo porterà poi Tim Fagan in «Next To Nothing», vertice creativo dei Died Pretty e di tutto il rock anni '80, che di «Mirror Blues» preserva la travolgente irruenza, difettando inevitabilmente una pari, estatica sorpresa.

Dove sta la sorpresa, direte voi ... La sorpresa viene fuori quando, al minuto quattro (secondo più, secondo meno) di «Mirror Blues» la furia si placa, e prende vita una ballata elettrizzante a metà strada tra le visioni del Bob Dylan di «Blonde On Blonde» (un brano qualsiasi, a vostra scelta) rivisitate da Jimi Hendrix («All Along The Watchtower», non c'è nemmeno bisogno di dirlo) e quelle dei Dream Syndicate di «The Days Of Wine And Roses»; con uno stacco che - ve lo raccomando - pare tratto di peso da «At First Sight» ed ispirato da un Dom Mariani sotto amfetamina (solo che «Mirror Blues» viene prima di «At First Sight»).

Poi, ad un certo punto, mi guardo indietro.

918 parole e 5.632 caratteri solo per dire che «Mirror Blues» ha la statura del capolavoro ed è, senza possibilità di discussione, il più grande brano sospeso tra garage, punk e rock presente nella mia discoteca, più di «I Swear», più della citata «At First Sight», più di «Don't Drag Me Down» più di qualsiasi cosa abbiano mai inciso i Ramones, e non potete lontanamente immaginare quanto mi costi ammetterlo!

Giunto al termine, mi sono ricontato anche le citazioni: sedici (diconsi s-e-d-i-c-i) pietre di paragone per tentare di descrivere alla meno peggio un solo brano. Che questo non vi induca però in errore: i Died Pretty sono stati uno dei gruppi, in assoluto, più originali e fuori dagli schemi del panorama musicale degli anni Ottanta.

Per cui, gotta smash them mirror blues.

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Ebbe a dire il cantante Ron Peno: «Il massimo della fama potrebbe essere incidere un sette pollici e poi non farsi mai più sentire». Fosse andata veramente così, con «Mirror Blues» i Died Pretty avrebbero comunque marchiato con fuoco indelebile la scena rock.

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