Questo libro riuscirà a catturare l'attenzione di pochi.
Effettivamente, con le sue centosessantanove (169) pagine, non lascia sulla sua strada particolari motivi tali da suscitare un ampio interesse. Vecchi contesti musicali, vecchi contesti sociali, atmosfere d'altri tempi. Questi gli elementi caratteristici che accompagneranno la lettura in questo viaggio a ritroso in una Napoli appena uscita dalla guerra. Una città pronta a lasciarsi conquistare, in tutti i sensi, dagli americani; ora simbolo di vittoria e di libertà. Se siete già alla ricerca di un libro che abbia al propio interno questi elementi, è il libro che fa per voi. Se questi elementi vi intrigano, è il libro che fa per voi, e che vi porterà in un mondo nuovo attraverso le storie di un mondo vecchio, animato da personaggi entusiasmanti.
Solo un meridionalista appassionato di Jazz - come lo scrivente - poteva cadere nella trappola di Diego Librando, autore del libro. Librando cerca di portare il lettore, con una cronaca socio-storiografica fedele, nella realtà sociale e musicale partenopea del tempo, non lesinando di certo una rapida panoramica in scala nazionale e che porterà fino agli anni '50. Il libro affonda le sue radici partendo dal controverso rapporto tra regime fascista e Jazz. In realtà, in nome e nella persona di Mussolini, non si mise in atto una incisiva e sentita campagna di contrasto al Jazz, benchè si pensi diffusamente il contrario. Anche perchè il Duce doveva fare i conti con quello che il Jazz cominciava a rappresentare per alcuni componenti della sua famiglia: di suo figlio Romano il destino è noto, che lo ha portato a diventare uno dei più apprezzati pianisti Jazz d'Italia, ma pare che anche un altro figlio del Duce, Vittorio, rimase affascinato dal vento del Jazz in arrivo dall'America.
D'altro canto, se i figli del Duce potevano godere di cotanta accondiscendenza, il famigerato MinCulPop del regime fascista cominciava nel resto d'Italia a dare battaglia a colpi di ordinanze, nel tentativo di arginare il fenomeno, reo di "ledere alla dignità e al prestigio delle autorità e della moralità". In tutta risposta, la parola d'ordine di orchestre e discografici era di italianizzare nomi e titoli stranieri, così da aggirare il problema. Bastava poco: Louis Armstrong divenne "Luigi Bracciaforte", Benny Goodman spacciato per "Beniamino Buonuomo", la famosa canzone "Blue Moon" presentata come "Luna Malinconica" e via di questo passo. Del resto anche delle personalità illustri del mondo della musica colta scesero in campo, con il l'obbiettivo di delegittimare il fenomeno.
E' il caso di Pietro Mascagni, il quale, schiavo del suo livore, cominciava a parlare di fenomeno di "barbarie, oppio e cocaina". Ma il fenomeno dilagava, le sale da ballo d'Italia erano piene, la febbre del Charleston era tornata e si era diffusa, e personaggi come Gorni Kramer e Pippo Barzizza, veri pionieri del Jazz orchestrale in Italia, riscutevano vasti consensi con le loro rispettive formazione. Se Mussolini in precedenza diede vita ad un tacito rapporto, la situazione degenerò inevitabilmente con la dichiarazione di guerra fatta dall'Italia nel Giugno del '40. Messa al bando dei balli e della musica americana, chiusura dei locali notturni, ed esterofilia bollata con un sinistro "demo-giudo-pluto-massonico". Tuttavia, con far carbonaro e clandestino, il Jazz continuò a diffondersi anche negli anni della guerra.
Ma sarà grazie allo sbarco delle truppe alleate, nel 1943, la vera e prevedibile svolta della storia. La fonte di tutto ciò comincia a mettere radici nel tessuto sociale e culturale italiano, in concomitanza con la risalita della penisola. Aria nuova, di libertà e vittoria, anche attraverso la musica. In un acceso e incessante lavoro di propaganda, voluto espliciamente dal Comandate alleato di Napoli Charles Poletti, gli americani riaccesero le radio nelle case degli italiani - grazie al dipartimento "Psycological Warfare Branch" -, riaprirono i loro Night Club, ora diventati circoli per le truppe statunitensi, e cominciarono a diffondere i famosi "V-Disc", ovvero i dischi della vittoria, la musica vincente. 905 dischi incisi in un arco temporale che andava dal 1943 al 1947. Fu così che i Lennie Tristano, i Frank Sinatra, i Duke Ellington, i Nat King Cole, i Woody Herman si ritrovarono affianco delle razioni alimentari negli spacci americani.
Molte stelle del Jazz passavano da Napoli, con le loro esibizioni, nel tentativo esplicito di far sentire alle truppe aria di casa. Per certi versi, questo libro, è la risposta musicale a "Forcella - La Casbah di Napoli" di Vittorio Paliotti. Un bel libro che regala uno spaccato di piccole e grandi storie di vita e di malavita del famoso rione napoletano, soprattutto della sua storia di guerra e di dopoguerra. Napoli diventa così, grazie alla ancora massiccia presenza americana, un importante punto di riferimento del Jazz in Italia dell'immediato dopoguerra; sicuramente il più importante del Sud, anche se la scena non aveva ancora dei connotati definiti. Ben presto le cose cominciarono a cambiare in peggio. Dopo il via grazie furore iniziale, dalla voglia di ricostruzione morale e materiale del dopoguerra, il palesarsi di una forte presenza sociale democristiana, tornava a dare un certo senso di cupezza anche alla cultura musicale, in nome della moralità e dell'integrità da salvaguardare.
Sono gli anni del politically correct amplificato da un poco evoluto Festival di Sanremo. Non evoluto appena nato... Tuttavia, se da altre parti Fred Buscaglione (in precedenza fiero combattente dello Swing sul fronte di Torino) continuava a dare leggerezza e groove, sul fronte napoletano avvenivano due fatti importanti: la nascita del primo Jazz Club cittadino, il (CNJ - Circolo Napoletano del Jazz, anno 1954) e l'affermarsi di un pianista dalla proposta accattivante, formatosi nei Night dell'Eritrea fin dal 1937 e tornato in Italia con un bagaglio di Swing pronto da fondere con la melodia partenopea e con dosi di ironia tipicamente napoletana. Si trattava di Renato Carosone, un eroe del tempo e non solo di quel tempo. Purtroppo l'entusiasmo andava a scemare definitivamente con la coda degli anni '50, poco teneva ancora Napoli ancorata al Jazz.
Molti dei protagonisti di quella stagione cercarono fortuna musicale in altre città. Alla fine del libro, Librando ci regala oltre a delle foto dei protagonisti, delle interviste esclusive a molti dei protagonisti dell'epoca, le quali rappresentano la vera ricchezza storica del libro. Da Mario Schiano, il primo in Italia che capì - a tal proposito racconta un divertentissimo aneddoto - anche se incosapevolmente il linguaggio del Free, a Gegè Munari, batterista ancora in sella. Da Lino Liguori, nipote di Gegè Di Giacomo, simpatico batterista di Carosone, a Renzo Arbore, il quale si formava musicalmente propio nella Napoli dell'epoca.
Arbore, un po' il continuatore del discorso di Carosone, rappresenta un po' anche quel fatidico ponte tra America e Napoli, quel ponte percorso da chi vuo fa' l'americano, ma che trova le sue radici in un incontro di civiltà e musica da molto prima, cioè dalla diaspora italiana di fine '800 e inizi '900. Discorsi affascinanti che legano Italia, Stati Uniti e Jazz. Dalla nascita in poi. Poi arriverà James Senese, un niro figlio di una madre di guerra. Sembra la sintesi del libro, James.... Come diceva un amico, scimmiottando simpaticamente il napoletano: "vulisse 'a sunà almeno 'na vota 'o mese comm' a James Senese!" Ma è un'altra storia...
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