«Strano», dico sottovoce mentre mi tocco lo zigomo guardandomi intorno.
Il cielo è quasi completamente sgombro; nuvole leggere e bianche, per nulla minacciose, ben lontane dal poter minacciare pioggia e fulmini. Lo sguardo allora scende in direzione il timer dell’impianto d'irrigazione del minuscolo giardino ma è un’assurdità perché manca ancora un‘ora al tramonto. Nemmeno i tarantolati bimbi dei vicini sono impegnati in qualche battaglia a suon di gavettoni. E allora...
«Strano», ripeto a voce un pò più alta mentre rincaso cercando di togliermi di dosso con una scrollata di spalle un magone immenso e quel punto interrogativo. Impiego qualche lungo secondo per capire che non è una goccia, bensì una lacrima, quella che mi ha rigato il volto. Mi è necessario quel lasso di tempo perché un uomo spesso accetta a malincuore il sano sfogo di un pianto; lo considera alla stregua di un "bug", un qualcosa capace di sminuirne la virilità. Se poi quest’acqua salata, di natura tutt’altro che marina, nasce da un innocente libro allora è capibile il motivo per il quale non mi sono raccapezzato subito.

Per un montanaro come me quella di Buzzati è una figura estremamente affascinante; scrivere, leggere e andare in montagna sono tre tra le cose che apprezzo maggiormente. Quanto mi sarebbe piaciuto conoscere questo bellunese, solo per stringergli la mano oppure, qua esagero, per fare una scalata assieme sulle Alpi e poi una serata piena di chiacchiere e vino rosso al rifugio. Rimango rapito da quel suo modo secco, lapidario e comunque poetico, di fotografare la realtà: bocconi duri da digerire ma impossibili da ribattere perché basta vivere un pò per capire che, purtroppo, ha ragione e ha centrato il punto che la maggior parte di noi cerca di non vedere. Mi pare sia uno scrittore condannato a dare il meglio di sé quando si cimenta nella produzione di brani melanconici e cupi ed anche in questa raccolta è così.

Come ne “Il deserto dei Tartari” emerge il rimpianto per quello che non si è fatto e per paura si è procrastinato all‘infinito (cfr. l‘omonimo racconto “Il colombre“), la lotta intestina contro la routine della vita spersonalizzata di città (cfr. “L‘ascensore“); c’è spazio per trattare delle dolci e dolorose spire dell’amore perduto (cfr. “La barattola”) anche attraverso la meravigliosa descrizione di un bulldog malato tra le fredde vie festanti della città sotto il periodo natalizio (cfr. “Il cane vuoto”); l’inutile battaglia contro il tempo che avanza effettuando un semplice ma letale cambio di prospettiva (cfr. “Cacciatori di anziani“). Ci sono episodi più allegri, come quello in cui un Santo decide di rinunciare alla pallosa beatitudine del paradiso pur di poter vivere ancora una volta, magari in maniera diversa, i vent'anni pieni di false speranze e illusioni (cfr. "Il crollo del Santo"), ma complessivamente risultano essere meno incisivi e centrati. In un racconto durissimo e autobiografico quasi si confessa, ammettendo di avere avuto successo grazie allo sfruttamento dei dolori altrui che ha semplicemente osservato, metabolizzato e scritto (cfr. “Il conto“). È spietato nella critica contro sè stesso: la malattia che ce lo ha portato via prematuramente, (la stessa del padre), la deve avere considerata come lo scotto da pagare per anni di immeritati successi. Mi piace questa sua riflessività nell’affrontare la vita; adoro il modo con cui riesce a descrivere il dolore senza tanti giri di parole; ammiro la condanna di una società impazzita ed invidiosa fino al midollo che non riesce a condividere nemmeno il sorriso di una bambina che stringe un palloncino in mano (cfr. "Il palloncino").

Sono crollato quando mi ha messo davanti ad una scena che, in maniera indiretta, sto vivendo proprio in questi ultimi tempi (cfr. "I due autisti"). Buzzati ha fotografato la situazione nemmeno fosse stato presente in quella discussione famigliare della settimana scorsa, finita in lite, e così mi si è attorcigliata addosso una tristezza capace di occludermi le vie respiratorie, strizzarmi come un cencio e fare uscire quello che avevo dentro. Attraverso gli occhi. Scrivere in questo modo sublime è quasi illegale. Dovrebbero scriverci qualcosa sul retro della copertina, proprio come fanno per i pacchetti di sigarette, perché certi testi bisognerebbe maneggiarli con cura e solo quando si ha uno stato d’animo adatto.

In uno degli ultimi racconti (cfr. “Le gobbe in giardino”) Buzzati ci parla della volontà intrinseca in ognuno di noi di lasciare un segno nelle persone che abbiamo conosciuto e alle quali abbiamo voluto bene. Descrive poeticamente la morte come un avvallamento sul prato di casa. Il funerale è di per sé una beffa perché non possiamo goderci il dolore altrui, ma per Buzzati una vita merita di essere vissuta se al momento della nostra morte saremo riusciti a creare un dosso sufficientemente grande per poter far incespicare e perdere il passo ad almeno uno dei nostri amici ancora in vita: in questo modo, magari dopo un'imprecazione per la gamba dolorante, sarà costretto a gettare lo sguardo sul terreno e a pensare, almeno per un istante, a chi non c'è più. Questo autore, bellunese di nascita e milanese di adozione, a forza di scavare e descrivere la realtà ha creato una montagna dolomitica talmente alta che anche chi non l’ha conosciuto, come me, non può che pensare a lui mentre affronta la vita di tutti i giorni.

La cinica spietatezza di questa raccolta consta nel fatto che sono racconti il cui monito risulta essere totalmente privo di presa su un giovane che si sente immortale e non capisce tutto questo triste filosofeggiare. Un adulto vi troverà tanta verità ma cercherà di negare il fatto che siano situazioni a lui congeniali e le scaccerà via come fossero zanzare d’estate; solamente in tarda età sapremo apprezzare queste gemme in pieno. Esattamente come ne “Il colombre”, quando il protagonista troverà il suo tesoro ormai prossimo alla morte.

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