Tre anni fa, quindi molto probabilmente saranno stati almeno cinque. E' nel bel mezzo di un tornante che un punto interrogativo si insinua prepotente: sembra un picchio che si diverte a martellarmi le tempie e così al primo slargo apro il baule della macchina e mi accorgo di aver dimenticato l’imbrago: perdincibacco è un’imprecazione distante qualche galassia rispetto alle sillabe che mi urlo addosso e che escono infine forma di fumo, faceva fret!, dalle labbra. Fossi un cartone animato il palmo della mano impatterebbe sulla fronte imitando il gesto di Homer Simpson. E’ una ferrata cazzuta quella del Monte Agner e, sebbene non sia un momento particolarmente allegro della mia esistenza, non me la sento di rischiare di diventare un trafiletto sul giornale del giorno dopo azzardando una salita senza un imbrago; mi fermo al primo bar. Bianchi sul tavolo alle 6 del mattino, profumo di legno delle panche e di dialetto quasi incomprensibile sebbene sia distante solo un centinaio di km da casa. Gli spiego il problema e mi propongono di chiedere un imbrago ad un rifugio, sempre che siano ancora aperti a inizio ottobre, oppure virare per sentiero attrezzato “Dino Buzzati” indicandomi la strada sulla cartina che nel frattempo ho aperto.
Dino Buzzati. Uno di quei tipici autori dei quali avevo sentito parlare innumerevoli volte e che non avevo mai approfondito in quanto stronzamente ritenevo fossero troppo celebrali e pallosi. “Il deserto dei Tartari” e “Un Amore” li avevo scorti perfino nella libreria di casa dei miei, dove al tempo ancora vivevo.
“Il segreto del Bosco Vecchio”.
Si tratta di un racconto fantastico nel quale alberi, animali e venti prendono vita e parola diventando co-protagonisti di questa favola forte dai contorni melanconici capace di trovare un riscontro nella realtà quotidiana. La natura come presenza apparentemente passiva; si limita a giudicare a parole o tramite il silenzio ciò che con il passare dei secoli ha imparato ad accettare, sebbene spesso non condivida affatto. Il Bosco Vecchio è diventato nei secoli un groviglio anarchico di rami, arbusti e foglie lasciato volutamente immacolato nel tempo in balia delle leggi della natura: ora che l’ultimo proprietario è morto e che è nelle mani di un parente, ex militare, sembra che la scure avrà la meglio su quelle antiche e quasi sacrali cortecce.
E’ un racconto arguto che, grazie alla contrapposizione con l’immutabilità delle piante e del fedele ed onesto agire degli animali, fotografa il progressivo cambiamento intrinseco nell‘essere umano. Così come un adolescente può perdere la capacità di apprezzare le 15 voci ed il silenzio assoluto di un bosco, allo stesso modo un gelido militare in pensione può sciogliersi, stufo di vincere quello che ormai non è più. Ho trovato meritevole di più letture la descrizione del declino di un vento dirompente ormai senza più fiato: negli occhi quei conoscenti che si aggrappano invano ad una giovinezza ita per sempre; trovarsi a correre pateticamente dietro un treno, credendo di poter riuscire a salire in carrozza. Una descrizione cui fa da contrappeso il crescente vigore di un gracile ragazzino che prima veniva deriso da tutti e che si tramuta in roccia granitica. Promette che non dimenticherà, che tornerà con costanza a sentire i geni del Bosco Vecchio, ma sono parole che quegli abitanti e quelle piante hanno sentito infinite volte ormai.
Ripenso ai personaggi ed alla storia di questo libro e mi sembra di sentire crescere e morire la vegetazione di un terreno lasciato incolto. E’ difficile accettare il cambiamento, ammettere di avere un diverso punto di vista rispetto al passato. Scattiamo quella che riteniamo possa essere una bella fotografia, la stampiamo e la incorniciamo per fare in modo che venga protetta dalle intemperie; temiamo si possa rovinare, rigettiamo il fatto che se la foto venisse rifatta sarebbe assai differente rispetto all‘immagine che ha caratterizzato la nostra esistenza. Chi crediamo di voler prendere in giro?
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