"Non vorrei mai essere iscritto ad un club di cui io stesso sia socio". (Woody Allen)
"(Dino) era come un fratello per me. [...] Ma, se devo essere onesto, per la maggior parte del tempo che abbiamo trascorso insieme non posso certo dire che lo trovassi piacevole. Era il peggior nemico di sé stesso"
Gary Duncan (Quicksilver Messenger Service)
Sarà dunque l'ennesima vicenda di un talento bruciato dall'insuccesso. Di un genio sciroccato che avrebbe potuto essere nume tutelare indifferentemente del folk-rock o della nascente psichedelia, solo fosse stato un soggetto meno idiosincratico, per non dire caratterialmente disfunzionale nei confronti del genere umano (precisiamo: di sesso maschile, perché con l'altra metà del cielo pare si relazionasse assai volentieri e con eccellenti risultati...e chiamalo fesso). Ma non solo l'insuccesso, chè quello è il meno, anche se stiamo parlando di un uomo nato povero in una famiglia di zingareschi guitti di strada e che morirà poverissimo (pietoso eufemismo: con le pezze al culo, quelle che nessun medico poté mettere al suo cuore e al suo cervello, entrambi consunti da eccessi oltre l'immaginabile).
Sebbene le cronache rock raccontino di un talento da tutti osannato nella breve stagione folk del Greenwich Village; di uno che giunto in California rischiò di far parte prima dei Byrds, poi dei Great Society/futuri Jefferson Airplane; che entrò nei primi Quicksilver Messenger Service salvo doverli subito abbandonare sul più bello prendendo la via delle patrie galere per possesso di roba - troppa e troppo buona, quel che più ferisce è che sul suo nome (quale?...ora vi dico) sia sceso un'inspiegabile oblìo. In vita, ma pure postumo. Ed allora, siccome ogni tanto nutro una sana antipatia per il genere umano, anch'io, come le formiche, nel mio piccolo mi incazzo. Proprio come colui che nacque Chester Powers e che divenne in arte (poco) noto in gruppo - quei tristi epigoni di sé stessi che furono gli ultimi Quicksilver - come Jesse Oris Farrow e da solo come Dino Valenti.
Con simili premesse, non sorprenderà più di tanto che il primo ed unico manufatto a firma solista del Nostro porti dentro di sé i germi del fallimento commerciale. Tanto per cominciare, proprio il suo bizzoso autore in sede di registrazione pretese carta bianca, volendo sistematicamente smontare la produzione troppo "arrangiata" di Bob Johnson, uno che porterà al successo planetario tra gli altri Dylan, Johnny Cash e Simon & Garfunkel. Logico che il manager e quelli della Epic si prendano la loro silenziosa e fredda vendetta. In due modi, uno più perfido dell'altro: nessunissima promozione al disco una volta uscito e, sulla copertina, pure lo "sgarro" del nome storpiato in "Dino Valente". E' lo showbiz, bellezza...
Dolerci pertanto di questo do it yourself fricchettone? Piuttosto, ringraziare genuflessi e per l'eternità. Qui si prende l'anima del folk classico autorale, la si congiunge con le ellissi psichedeliche ed etniche della musica californiana di fine Sessanta, gli si aggiunge un tocco di country e di jazz appena accennato, finanche un pizzico di classicità orchestrale e si porta il tutto, dopo aver abbandonato per sempre una delle tante città-fantasma del vecchio West, nel deserto a spargere le ceneri nei pressi di Joshua Tree. Insomma, irripetibile connubio di un Dylan cui viene meno l'elettricità di Newport ("Me And My Uncle"), di un Fred Neil sospeso tra arpeggi incantati e magie psichedeliche ("Time"), di un Tim Buckley che scopre con anticipo prima le profondità di "Lorca" attraverso una elettrica jazzata che incanta ("Something New") e poi anche i viaggi interstellari di "Starsailor", clamorosamente - unico retaggio di quel che doveva essere e non fu - accompagnato da una slavina d'archi che chissà perché qui ci sembra perfetta ("Tomorrow").
C'è spazio ancora per un gioco di vuoti e pieni folkjazzato che incidentalmente inventa anche John Martyn ("My Friend"), per un'illuminazione - ça va sans dire - meno ombrosa di Skip Spence ("Listen To Me"), per ritornare ad atmosfere skiffle in cui il folk-blues vola in spazi senza tempo, nei campi di cotone come nelle campagne inglesi, e il nostro cuore con lui ("Everything Is Gonna Be OK"), arrendendosi definitivamente a quel fantasma apocrifo del Bruce Palmer di "The Cycle Is Complete" che è la conclusiva, surreale "Test". E poi, quasi nel mezzo, quelle due canzoni che da sole basterebbero a giustificare una carriera: "New Wind Blowing", la più bella canzone che Roy Harper non ha mai scritto e "Children of the sun", quella più bella che non ha mai scritto Nick Drake. Ci meritiamo tanto?
Davvero, meglio così, Dino. In quell'isola deserta di cui sempre parliamo e su cui ogni tanto forse ci piacerebbe davvero andare, libera da questo fastidioso e stupido essere che è l'uomo, a farmi compagnia tu e il tuo disco non mancherete di certo.
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