"Brothers In Arms" è quel disco che subito salta alla mente quando si sentono nominare i Dire Straits. Uno dice "Dire Staits" ed ecco che la mente libera lo spazio necessario per metterci un bel cielo azzurro con un po' di nuvolette sparse qua e là e una chitarra dobro un po' spostata sulla destra, che sta su chissà come. Se poi la mente è capace di qualche veloce collegamento, ecco materializzarsi un omaccione tutto squadrettato vestito da operaio con il sigaro in bocca che canta "I want my I want my I want my MTV"; ultimo sfozo, infine, è quello di chiedesi come può un energumeno del genere avere una voce che ricorda vagamente quella di quel tizio che cantava con i Police.
Si dice "Brothers In Arms" ed ecco comparire classifiche su classifiche degli album più venduti di tutti i tempi. Ebbene, "Brothers In Arms" non è il miglior disco dei Dire Straits. E' il disco della consacrazione, uscito appena dopo che la lucidità creativa di Mark Knopfler aveva cominciato la sua fase calante, disco costruito nei minimi dettagli per essere tale con tanto di videoclip innovativi, tour mondiale infinito e stampa su CD, ma non è il migliore. E' una miniera di singoli, ben cinque su nove, e i restanti quattro hanno comunque goduto di ottimo trattamento durante i concerti diventando a loro modo dei classici. Nove pezzi, nove eroi che si prendono in carico la responsabilità di consacrare i Dire Straits e scrivere il loro nome in calce alla storia della musica. Mark Knopfler dà una riguardata alla voglia di sperimentazione che aveva caratterizzato il precedente "Love Over Gold" e opta per un taglio più pop e radiofonico per il suo nuovo lavoro, senza dare l'impressione di averlo fatto apposta.
Disco suddiviso in tre parti, la prima è costituita da brani solari (nelle melodie) e dall'arrangiamento vivace, a partire dall'iniziale "So Far Away", timido singolo di lancio dove un furbo utilizzo di effetti regala alla canzone una sua identità sorvolando su un testo fin troppo banale, per poi proseguire con uno dei riff più pubblicizzati e noti della recente storia della musica, reso ancor più godibile dall'intro elettronico che si innalza fino a dar la sensazione di voler esplodere: le note acide di "Money For Nothing", secondo prepotente pezzo che fa ta-tada-ta-taaan tada tada tada tan, arrivano quindi come un atto liberatorio, a dar pace a quel delirio di sintetizzatori e tamburi che pareva frantumarci i timpani. "Walk Of Life", successivamente, è il risultato degli esperimenti iniziati tre anni prima da Mark Knopfler e Guy Fletcher con "Industrial Disease", quando i due capirono che da un motivetto d'organo si può tirar fuori un singolo di quelli che la gente balla senza neanche ascoltare le parole. La seconda parte, centro del disco, è più romantica e delicata, con "Your Latest Trick" che viene lasciata lì a calmare le acque, a rilassare gli animi, a ricordare che Mark Knopfler è prima di tutto un compositore di musica che un guitar hero. L'intero pezzo è dominato dal sax e da sonorità tranquille che preparano l'ascoltatore ad addentrarsi ancora di più in una tenera ambientazione notturna con la successiva "Why Worry", pezzo dall'atmosfera rarefatta, schiva e sorridente, rimanda a quei momenti in cui ci si sta per destare dal sonno ricordando un sogno. La terza e ultima parte, vero cuore di tutto il lavoro, vede perdersi la positività fin qui incontrata in favore di canzoni più cupe e impegnate, centrate sul tema della guerra e nello specifico sui conflitti in El Salvador e Nicaragua senza dimenticare le Falklands, che in quegli anni ispirarono numerosi artisti a schierarsi contro il militarismo, e Mark Knopfler sembra non voler essere da meno di Roger Waters e compagnia.
"Ride Across the River" mostra una versione inedita dei Dire Straits, con la chitarra di Knopfler che come una lama taglia un tappeto ritmico costituito da ottoni e percussioni mentre la voce rimane sulla sua linea pacata e distante, fredda e disillusa. "Man's Too Strong", secca, invece regala uno dei pochissimi casi di uso del plettro da parte del fingerstyler di Glasgow e fa apparire lontanissime le scorpacciate elettroniche e distorte assaggiate solo una ventina di minuti prima con "Money For Nothing". Ci pensa il penultimo pezzo, "One World", a riproporle in tutta la loro pomposità per poco più di tre minuti grazie soprattutto al prezioso aiuto del fido bassista John Illsey che in questo caso assume forma e sembianze dell'ottavo eroe del disco, prima che la scena gli venga rubata dall'ultimo e più valoroso, la struggente title-track che tra un assolo di Gibson e l'altro regala forse la miglor performance vocale di Knopfler e chiude in gran bellezza il disco che subito salta alla mente quando si sentono nominare i Dire Straits. Ma non il migliore. Missione compiuta.
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