Ascoltando i Dirge (i francesi, da non confondere con i 200 altri dirge americani, tedeschi ecc - che fantasia aggiungerei) non si può non tirar in ballo i giganti del post-hardcore Neurosis: le sonorità rimandano dritte dritte alla band di Oakland, quelle stesse emozioni proto-apocalittiche, ma non quella ostentata da band estreme, fisica, guerresca, o spaziale, o chissà che cosa, bensì quell'apocalisse dell'anima, dell'incubo, quell'apocalisse dei sensi, metafisica, del dolore.
Attivi da quasi due decadi, i dirge danno prova di maestria nel saper giostrarsi, in un tempo in cui questo genere ormai ha mostrato la corda con band tutte uguali tra loro, in un amalgama sonoro di tutto rispetto: influenzati dai maestri si, ma non per questo meri epigoni, anzi pieni di personalità che li differenzia non poco da tutte quelle altre band che si muovono, senza a conti fatti saper dire nulla, in tale genere. Forti di un sound pieno zeppo di atmosfera quasi maledetta, ascetica, distante, in continuo fluire, disperante: immaginate un uomo, testa china, lacrime solcanti il terreno, silenzioso, con un masso tra le mani, stanco dell'avidità della vita, che si accinge a raggiungere il fiume più vicino, conscio che quest'ultima non possa dargli più niente se non altro male, se non altre ingiustizie, pieno zeppo dei suoi stessi errori traboccanti in un muro invalicabile, né tantomeno scalfibile; arrivato a destinazione, fermo sulla riva, rimane a riflettere per cercar qualcosa di almeno rallegrabile che lo distolga da ciò che sta per fare, una speranza, capendo ben presto che quest'ultimo tentativo è tutt'altro che fondato, anzi, del tutto esente dalla sua intera esistenza. I Dirge sono questo, sono disperazione alle stelle, sono soldati che marciano verso la fine, sono l'agonia di un mondo in malora, sono l'antitesi del ben stare, sono pesanti, angoscianti, lenti, rabbiosi, pensosi, quasi filosofici nel mostrare una pelle così stratificata del dolore.
Questo è il loro quinto lavoro lungo, che segue quel capolavoro a nome "wings of lead over dormant sea" (doppio album, contenente 6 tracce asfissianti, dove l'ultima, contenuta nel secondo dischetto, durava la bellezza di un'ora tonda tonda), ed è un nuovo passo in avanti, un passo verso la melodia che rende il tutto un tantino più digeribile, un nuovo gran lavoro, forse un tantino sotto il precedente (ma forse dico ciò solo perché la stagione in cui mi accingo ad ascoltarlo non è una delle più consone per quanto riguarda tali sonorità). Non potrei nemmeno fare un track by track, vista la natura prettamente monolitica del lavoro, non saprei dirvi nemmeno dove sta la personalità, so solo dirvi che a differenza di tante altre band del medesimo genere, se chiudessi gli occhi, e qualcuno metterebbe una loro musica a mia insaputa, beh, li riconoscerei senza esitare (ah, ecco dove sta la personalità, nella riconoscibilità).
"Elysian Magnetic Fields" è stordente nella sua pesantezza da caterpillar (come tutti gli altri lavori dei qui recensiti), perciò astenetevi dall'ascoltarlo se volete ancora vedere il sole brillare in cielo in questa calda estate che si prospetta, se non volete che le nuvole del subconscio si facciano spazio in voi per sradicarvi l'anima e il cuore dal petto: sono un masochista per quanto riguarda musica, e so che lì fuori tanti altri sono accostabili a me e che se ne fregheranno di questo mio avvertimento per far loro un lavoro che, senza ombra di dubbio, entrerà di diritto nella top ten mia personale di fine anno.
I Dirge sono meravigliosi, punto e basta! e per una volta mi sento di consigliarvi un lavoro che seppur nella sua quasi totale mancanza di originalità, possiede una visione così profonda del tutto da regalarvi un'ora talmente emozionante da non esser facilmente dimenticata; esagero? Son pur sempre le mie sensazioni a parlare no? Adesso smettete di leggere, fatelo vostro, nei modi che ritenete più consoni, spegnete tutto, osservate il soffitto, fatelo partire, vi si illustrerà dinnanzi tutta la vita. I Dirge sono il suono del domani, e se proprio vorreste leggere qualcosa per dar vita alle immagini che trasuda il disco, prendete un "the road" tra le mani, (capolavoro del Cormac McCarthy di "non è un paese per vecchi", illustrante la vita di un padre e un figlio alla ricerca della frescura dell'oceano, in un mondo che ha già visto la vera apocalisse, la sua inevitabile fine, imbastito di momenti tetri e cupi e pesantissimi nel delineare il volto di una società in preda alla sopravvivenza più sfrenata), leggetelo e capirete il vero significato di brivido!
Annichilenti!
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