Un violino. Una chitarra. Una batteria. Tre strumenti, eppure sono sufficienti, anzi, più che sufficienti. Perché non serve nient’altro per esprimere l’essenza di qualunque emozione, se questi sono suonati in modo impeccabile e appassionato come in quest’album.
I Dirty Three sono un progetto australiano riconosciuto, con merito, tra i più importanti ed apprezzati nel vasto universo del post-rock, genere che si presta ad un numero praticamente infinito di interpretazioni, dai lentissimi build-up dei Godspeed You! Black Emperor, alla schiettezza dei cambi di ritmo degli Slint, alla delicata raffinatezza dei Talk Talk. Eppure, tra i giganti di questo genere, anche i Dirty Three hanno saputo ritagliarsi un posto di spicco, grazie ad una maturità artistica raggiunta nella seconda parte degli anni ’90, dopo l’esperienza dei primi due album e sfruttando pienamente la ricchezza derivante dall’aver collaborato con artisti quali Nick Cave, Beck, John Cale. Horse Stories del 1996 è un album che mette in mostra tutte le doti del gruppo che, sulla scia di questo risultato, nel 1998 si mette alla prova con un ambizioso concept di tema marino, "Ocean Songs".
L’album di apre con “Sirena”, che è il preludio a quelli che saranno i motivi ricorrenti di quest’opera: le percussioni si trascinano lentamente accompagnandosi ad uno straziante violino, mentre la chitarra è, solo temporaneamente, in secondo piano. Il suono sembra come provenire da lontano, velato da un’atmosfera soffusa. Ma col passare dei minuti si viene catapultati nel vortice: gli strumenti si intrecciano tra loro, sviluppando un rapido crescendo e lasciando l’ascoltatore a meditare, malinconicamente. Sensazioni simili sono evocate dalla successiva “The Restless Waves”, brano che mi dà l’idea di un uomo che, da solo, si allontana per passeggiata solitaria in un tardo pomeriggio autunnale, fermandosi a guardare le onde che si abbattono sugli scogli, ancora una volta, ancora una volta, ancora una volta, mentre il vento agita le acque e i capelli e i vestiti dell’uomo. Sono passati già 9 minuti, ma noi non ce ne siamo quasi accorti, perché questo album scivola via così, è come un sottofondo per il nostro riflettere, mentre davanti agli occhi si proiettano immagini di diversa natura. In qualche modo, infatti, “Distant Shores” mi porta alla mente scene di una infanzia ormai lontana, alle spalle, ma per sempre custodita dentro di me, con tutti i suoi luoghi, i suoi profumi, mentre i tre strumenti, sempre loro, sempre e solo loro, costruiscono una lenta e sofferta trama sulla quale si erigono i maestosi momenti di maggiore intensità.
C’è il rischio che questa diventi una recensione “song-by-song”, ma lascerò che chi ascolta l’album per la prima volta possa farsi trasportare da solo, scoprendo così le sue canzoni preferite, perché canzoni di basso livello non ce ne sono. Come seguendo un filo conduttore unico che permea tutte le tracce, l’opera si dispiega per 66 minuti di incredibile bellezza e raffinatezza. Malinconia, tristezza e un generale senso di nostalgia predominano, ma non mancano punte di ottimismo e di tranquillo, piacevole, senso di equilibrio. Un album che si presta a qualunque sia lo stato d’animo dell’ascoltatore, capace di adattarvisi, o di cambiarlo, come in una catarsi.
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