Sono passati 11 anni da quando Warren Ellis, fondatore di questo trio australiano, decise di attaccare un pick-up da chitarra al suo violino, donandogli un suono elettrico e carico di riverbero.
Con il supporto della chitarra di Mick Turner e della batteria di Jim White, Ellis e i Dirty Three crearono sonorità mai sentite prima, un sorta di incrocio tra rock, blues, folk e musica da camera.

Anche in questo settimo capitolo i tre strumenti ripropongono questa formula: seguono ognuno uno stile proprio e si rincorrono l’un l’altro nel creare quella sonorità unica, crepuscolare e piena di malinconia, che caratterizza il trio di Melbourne.
Non c’è voce. Chi “parla” è il violino di Ellis, i cui virtuosismi cantano visioni meste e struggenti: “for our music the most important thing is the sadness”, dicono i Dirty Three. E ad ascoltarli non si può dar loro torto.
Basta sentire le note dell’iniziale “Alice Wading”, gotiche e umorali, prima che la frenesia dell’arpeggio di Ellis prenda il sopravvento. Oppure le note decadenti di pianoforte in “Long way to go with no punch”, sulle quali il violino si innesta in un bel gioco di richiami. Anche quando il ritmo cresce ed il timbro del violino si fa più forte come nella suadente “No stranger than that” o nelle distorsioni controllate di “Rude (and then some slight return)” l’atmosfera che si respira è struggente e densa di intense suggestioni.

Forse non siamo al livello dei precedenti “Ocean songs” o “Whatever you love, you are”, ma senza dubbio questa è una buona conferma del loro stile unico e della loro innata capacità di fare musica che emoziona ed esalta gli stati d’animo più intimi e viscerali.

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