Il successivo progetto dell'iperattivo Roy Montgomery si chiama Dissolve, ed è un titolo che ben si associa alle atmosfere del primo album "That That Is. . Is (Not)".
Flebili echi di accordi in dissolvenza, composizioni minimaliste che serpeggiano oziose nella nebbia, opache. Un album in scale di grigi, di gran classe, frutto della collaborazione con tale Chris Heaphy, altro chitarrista dalle caratteristiche similari (laggiù in Nuova Zelanda tutti si conoscono e tutti suonano uno strumento in qualche band).
Roy Montgomery è un gigante degli anni novanta e la sua fender-copia di seconda scelta acquistata in offerta presso un megastore è il simbolo del suo operato. Cioè come con mezzi umili si possa creare l'arte più sublime, come da una chitarra mediocre si possa tirar fuori un suono celestiale, come senza tecnicismi e con la semplicità più disarmante si possa dar luogo a musica di una raffinatezza trascendente. È ora che ce ne rendiamo conto, quest'uomo è il vero eroe dell'underground musicale mondiale degli ultimi quindici anni almeno, un umile artigiano asceso al più nobile dei troni. Le influenze sono le più disparate: nel vortice del suo universo sonoro si trovano persino tracce di Sonic Youth e qualche sospetto di dissonanze post-punk in stile Pere Ubu.
"That That Is... Is (Not)" è un sogno ad occhi aperti, un viaggio intriso di malinconia. I Dadamah si sentono eccome in questo lavoro ma il suono è più rarefatto e allo stesso tempo più pregnante. È una foschia che striscia nella tua stanza, una nebbia densa, di quelle che si tagliano col coltello. Una pacata estasi da assaporare in un pomeriggio piovoso, occhi chiusi. Le note gocciolano a intervalli regolari, come da un rubinetto chiuso male, le emozioni volano sofficemente a mezz'aria. Le vibrazioni ti sfiorano la pelle con delicatezza ma con costanza ferma, le nuvole di accordi che si sciolgono uno dietro l'altro ti massaggiano le tempie.
Questa è musica rigenerante.
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