La prima metà degli anni settanta è stata un’oasi per gli amanti della musica, grazie soprattutto all’avvenuta del progressive, che ruppe ogni barriera e canone esistente per creare qualcosa di nuovo.
Durò poco, distrutto dalla crudezza, “ignoranza” e necessità comunicativa del punk; ma oggi molti giovani musicisti, affascinati da quelle sperimentazioni, cercano di riproporre quella musica modernizzandola, nel bene o nel male.
Ma, diciamocelo, sono veramente poche le realtà valide.
Tuttavia da Israele arrivano questi Distorted Harmony, nuovi alfieri di quella recente ondata di Progressive Metal che prende il nome di Djent. Esordiscono nel 2012 con l’autoprodotto “Utopia” e nel 2014 esce “Chain Reaction”, il loro secondo album.
Era molto tempo che non sentivo un disco progressive così, che non fosse solo una mera dimostrazione tecnica a fini autoerotici (ultimi Dream Theater docet), ma, bensì, pura emozione.
Parlando dello stile, a differenza di molti compagni (come Periphery o Tesseract) il cantante degli israeliani, Misha Soukhinin, utilizza solo la voce pulita (e che voce pulita), senza sporcare il sound con scream o growl.
Il loro sound è pregno di melodie prodotte dalla tastiera di quel genietto di Yovan Efron, che, oltre a stendere la tela sonora su cui poi gli altri membri pitturano le canzoni, è l’autore dei testi, che sono molto poetici e adattissimi alla musica proposta.
Come già detto, questo disco non è una mera dimostrazione di tecnica, quindi quasi mai sentirete qualcuno dei membri partire sparato con assoli funambolici, bensì si avrà la percezione di ascoltare un unico blocco musicale, come se la divisione in tracce non esistesse, in puro stile progressive.
Tuttavia i Distorted Harmony alla base progressive ci aggiungono anche una forte dose di metal, accompagnando dolci melodie e ritornelli epocali (“As One”) a riff pesanti che, essendo in forte contrasto con il predominante gusto melodico del gruppo, ci sorprenderanno ancora di più e non troppo raramente ci ritroveremo a fare un po’ di sano headbanging (“Children Of The Red”).
È inutile quindi descrivere singolarmente ogni traccia, basti sapere che l’opera si evolve man mano, fra intrecci pianistici da urlo, vocalizzi poeticamente soffusi e riffs metal a iosa. “Chain Reaction” è veramente una reazione a catena di emozioni che, una volta finita, ci fa desiderare fosse durata di più. “Chain Reaction” è un disco da ascoltare da soli. Meglio se fuori piove. Meglio se sotto le coperte. E meglio se è un periodo in cui siamo un po’ sopraffatti e schifati dal mondo in cui viviamo, così forse potremo ricordarci che qualcosa di bello c’è ancora.
Almeno da provare.
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