M'introdussi nel Paese dei Balocchi di questo duo cileno con tutti i dubbi e i pregiudizi del mondo (CHI non ne avrebbe...?). Con la stessa diffidenza di chi sta per mandare giù una cucchiaiata di sciroppo particolarmente amaro. Milton Mahan e Mariana Montenegro non si fanno troppi problemi nel dichiarare apertamente i propri idoli e riferimenti - Boy George su tutti, ma anche certo synth-pop liverpooliano e tutta la scena-Disco tardo-settantiana... senonché, se a dirlo sono due che hanno esordito nel 2006 dispiegando disinvoltura TOTALE nell'uso di tastiere, batterie ellettroniche Korg e vetusti effetti sonori ripresi da quegli anni, un po' di paura - è chiaro - non può non venirti. Parliamo di suoni invecchiati male, ormai identificati come qualcosa di relegato a un periodo concluso... il MALE per antonomasia alle orecchie di chi quel periodo (con i suoi fantasmi) lo vorrebbe sepolto e dimenticato per sempre. Non escludo che qualcuno possa aver già abbandonato questa pagina, dopo aver letto (forse) fin troppo...

Eppure, eppure, eppure... questi Denver (da scrivere con l'umlaut sopra la E, ché se no il motore di ricerca vi porta in Colorado anziché sulle Ande) hanno un loro perché, e la personalità giusta per tentare progetti ambiziosi mantenendo un profilo di anti-divi totali, un'immagine che li tiene ben distanti dai più fastidiosi stereotipi del pop latino d'esportazione. E' appena uscito il loro terzo long-playing, "Fuera De Campo", lo sto ascoltando in queste settimane: nientemeno che un disco costruito alla maniera di un concept, fin dai relativi video. Già questo basterebbe per capire che stiamo parlando di qualcosa di particolare. L'altro aspetto che li distingue è il fatto di essere riusciti (impresa difficile, ma compiuta...) a suonare personali assemblando idee e soluzioni del tutto FUORI-CONTESTO per gli anni-zero del Terzo Millennio, molto più vicine al Musicland-sound di Giorgio Moroder che al cosiddetto indie-pop contemporaneo; che il più delle volte è poco "indie" e molto "pop", e neanche del migliore, com'è noto...

Immaginate l'ascolto di un loro disco (va bene uno qualsiasi dei tre usciti sinora, benché la mia preferenza vada al qui presente di tre anni fa) come una visita al parco-giochi dove siete cresciuti e dove non tornavate da anni, il parco in cui - fra scivoli e altalene - ritroverete i suoni della vostra "infanzia" musicale. Perché magari da "piccoli" non ascoltavate ancora i King Crimson o gli Univers Zero che avreste scoperto da "grandi", e nei 2/3 minuti di un 45 giri della cosa più leggera e spensierata che possiate immaginare stava tutto il senso della vostra giornata sonora, senza chiedervi perché e per come. Nei Denver che dal vivo ti abbozzano una cover di "Do You Really Want To Hurt Me?", e che non ti dicono di aver ascoltato Dylan da ragazzini perché fa effetto dirlo, ci rivedi un po' te stesso che a 14 anni (esempio fra tanti) ascoltavi "Kissing To Be Clever"... ci rivedi un passato che sarebbe sciocco rinnegare, quello che è stato ma che può essere ancora - magari solo per tre quarti d'ora di puro easy-listening di (una certa) qualità. 

Ma è solo una suggestione che butto lì, solo una chiave di lettura. Perché il progetto dei due di San Felipe non si regge sul semplice effetto-nostalgia: ascolti "Mùsica, gramàtica, gimnasia" e capisci che il talento e la scrittura ci sono, decisamente, e se a supportarli è questa vena citazionista del sound radiofonico di trent'anni or sono - anche nei suoi lati più triviali, come in "Olas Gigantes" - non è certo un limite. Nel loro caso, finisce col diventare il valore aggiunto. Melodie orecchiabili ma non banali, costruzioni corali ben architettate (lui e lei hanno due timbri eccezionalmente simili) e arrangiamenti per archi e fiati sono i punti ricorrenti di uno stile completo, eclettico. Che nell'arco di questi tre anni è diventato un marchio di fabbrica. Va da sé che quanti evitano certe sonorità come la peste non resisteranno a 10 secondi di questo disco. Ma intanto l'underground cileno (può essere un dettaglio, può anche lasciare indifferenti) celebra il progetto di Milton e Mariana - con quel tanto di esagerazione... - come "la perfecta artesanìa de una canciòn pop". 

E' un artigianato condotto sulla base di molti ma sicuri modelli, vedasi la sinfonia "moroderiana" di "Mi Primer Oro": un'esposizione carnascialesca di più strati strumentali ed effetti tastieristici da pura Disco Music stile-ABBA - non quella che è più nelle mie corde ma trascinante ai limiti del contagioso, con tanto di quel basso funk che più volte si ha modo d'apprezzare, in questi 45 minuti. Non che ai testi sia stata riservata meno attenzione: in "Diane Keaton" si mette in scena il Woody Allen di "Io ed Annie", col sottofondo di un piano elettrico e di accordi tipicamente "seventies" (splendidi passaggi in minore) che molto guardano alle colonne sonore dell'epoca. Un po' troppo convenzionale "Lo Que Quieras" (buona come singolo ma poco interessante), mentre il pezzo che meglio esalta la completezza dello stile è "Los Adolscentes": quasi sette minuti di base elettronica, chitarra elettrica mono-riff e voce di Mariana a inventare una sorta di martellante filastrocca da ballo; che sul finale si trasforma in una psichedelica esplosione kitsch di sintetizzatori e rumori - destinata a metter sottosopra lo stomaco di molti, non lo nego... "Feedback" l'avrebbero potuta incidere nell'82 o nell'83, letteralmente. "En Medio de una Fiesta" e "Cartagena" mi confermano che ne è valsa davvero la pena: il disco merita, LORO si meritano un bel plauso. E anche fuori dal loro Paese l'hanno capito, tante sono le recensioni positive.

Ma mai come in questo caso... sono le orecchie (e gli ascolti "giovanili" di ciascuno) ad avere l'ultima parola.

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