Turkishmen in Newyork.
Tempi questi di Melting Pot, di spiriti meticci e contaminazioni, di integrazioni e culture che si scambiano e si rimbalzano. Tutto molto bello "sulla carta" e potenzialmente ammirabile se non fosse che ogni tanto il "bel gioco" mostra i limiti e fa cascare i coglioni anche al più "ben disposto".
Eccomi infatti fare una digressione dai miei normali territori e recensire una delle peggio boiate che mi sia mai capitato di ascoltare, dopo il discorso di Berlusconi a Bruxelles e le sparate dell’On. Diliberto a Porta A Porta di tre mesi fa.
Sto parlando di questo lavoro di provenienza turca, appena uscito (ma temo scarsamente reperibile qui) di questi improbabili "Dolapdere Big Gang", 8 musicisti che, armati di strumenti tradizionali in alaturka (di antica origine turca) si sono cimentati nella reinterpretazione di Classici Hit della cultura occidentale, tanta vituperata e temuta dalle frange più estreme di un certo fondamentalismo assai radicato soprattutto lì.
Un “lasciapassare” ruffiano all’entrata nella UE della Turchia (per altro già accreditata)? Probabile anche se l’operazione poteva essere condotta mille volte meglio.
Ecco allora sentire con una punta di perplessità (più che una punta, diciamo un iceberg!) una bizzarra Englishman In New York (di Sting), un'imbarazzante quanto inascoltabile Smoke On The Water (dei Deep Purple), una parodistica Losing My Religion (dei R. E. M. ), la mitica ma qui stupratissima Its Raining Man (colonna sonora degli anni 80), una spaventosa Billie Jean (Michael Jackson) con tanto di tablas e ritmiche arabe di sottofondo.
Dopo i primi minuti in cui uno non capisce davvero il senso "artistico" della cosa (ammesso che ne esista uno), si capisce chiaramente che l'operazione è frutto di UNA GRANDE PARACULATA per far accettare l'arab-sound alle orecchie occidentali del popolino, poco avezze a questo tipo di sonorità “strane”. MA la cosa davvero imperdonabile è che le voci sono squallidamente occidentali, cantate in un americano fuori luogo perdipiù brutte copie degli interpreti originali. Un lavoro né carne né pesce, insomma, che fa girare i coglioni a entrambe le parti.
Si prosegue così con la miserrima Something Got Me Started (dei Simply Red) o con l'allucinante chicca-trash di Enjoy The Silence (dei Depeche Mode), davvero oscena come poche! Ancora Shut Up (dei Black Eyed Peas) o la rivoltante versione di Feel (di Robbie Williams che sta alla cultura araba come un merluzzo affumicato sta al Pudding Cake inglese) e di Serenade (della Steve Miller Band).
Esiste un filo che lega ALMENO queste canzoni? E perché no Sgt. Pepper dei Beatles o Strangers in the night di Sinatra?! Su che parametri è stata fatta la scelta della scaletta?
La cosa meno peggio, tutto sommato, è proprio la cover di Madonna La Isla Bonita per il sapore già latino e vagamente orientaleggiante dell'originale che poco si discosta.
Chiude questo "Festival dell'Orrido fine a se stesso" la storica Cant Take My Eyes Off You (l'hit del 1967 del gruppo musicale The Four Seasons coverizzata da cani e porci e che ha fatto la fortuna del cantante Frankie Valli) qui mutilata e storpiata in un ibrido informe e assolutamente senza senso, dove la "glamourosità gioiosa americana" si imbastardisce con tablas, archetti e turcherie varie, davvero fuoriluogo e sforzatissime come due lottatori di Sumo invitati a un Party di Armani.
Operazione bieca e davvero terribile: una delle peggio cose partorite da questo pensiero "Global Ad Ogni Costo" che questa cultura occidentale sta cercando di assorbire (della serie: abituiamoci a farcene una ragione!).
Preferisco di gran lunga un "regime di "separazione dei beni" tra le culture piuttosto che queste cialtronerie di bassa lega che non vanno a parare da nessuna parte.
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