Di solito quando si tratta di stroncare un disco non mi faccio scrupoli a randellare con il machete: in genere è anche un esercizio piuttosto divertente, tranne quando ad essere stroncati sono artisti che si hanno particolarmente a cuore: ad esempio, è sempre un grande dispiacere parlare male di un pezzo di storia della musica come Dolly Parton ma, ahimè, quando ci vuole ci vuole perché non basta avere un nome altisonante e una grande tradizione alle spalle per pubblicare a piè sospinto album assolutamente inutili e sterili come l'oggetto di questa mia recensione: "Hungry Again" del 1998.
Wikipedia dixit: "the album represented an attempt by Parton to rejuvenate her then largely stagnant recording career."; ricapitolando, l'ultimo album di inediti della Dolly prima di questa mezza ciofega è stato "Something Special" del 1995, che ancora non possiedo, ma nella cui tracklist figura un capolavoro, la stupenda ballata "Teach Me To Trust" che da sola vale più di "Hungry Again" nella sua interezza, a cui è seguito il discreto disco di covers "Treasures", che ho già preso in esame, e che comunque metteva in mostra un'interprete in grande spolvero nonostante alcune cadute di stile, "Walking On Sunshine" su tutte; se prima di "Hungry Again" la carriera della bionda ragazza del Tennessee attraversava una fase stagnante, dopo la pubblicazione del suddetto album io mi azzarderei persino a parlare di spiaggiamento, perché è esattamente questa l'idea che dà questo disco, con il suo sound patinato e moderneggiante che in teoria dovrebbe nascondere la poca vena creativa di Dolly, ma che in realtà non fa altro che far rimpiangere la spontaneità, il calore, l'atmosfera genuina e ruspante degli album dei primi anni '70 come "My Blue Ridge Mountain Boy", "Joshua", "In The Good Old Days" o "Love Is Like A Butterfly".
Se non altro la voce bene o male c'è sempre, e riesce comunque a ben figurare in ballate come l'acustica e riflessiva titletrack, l'estatica e autobiografica "Blue Valley Songbird", sicuramente il punto più alto dell'opera e "I Still Lost You", "I'll Never Say Goobye" e "Paradise Road", tutte onestissime canzoni che si fanno ascoltare più che volentieri, ma decisamente troppo, troppo poco per un'icona del calibro di Dolly, anche perché i pezzi che in teoria dovrebbero essere i più trascinanti e catchy, come "I Wanna Go Back There", "Time And Tears" e "The Camel's Heart" semplicemente mancano di qualsiasi piglio e grinta, finendo per stufare già dopo 3-4 ascolti. Nel complesso si può salvare la breve ed intensa "When Jesus Comes Calling For Me", pezzo un po' (un po' tanto) stucchevole a livello di testo ma inappuntabile musicalmente con il suo giro di armonica e la sua atmosfera da inno spiritual, se non altro molto meglio dei due singoli estratti, "The Salt In My Tears", modesta canzonetta pop rock usa-e-getta di cui è stato girato anche un videoclip molto sim-pa-tti-co e "Honky Tonk Songs", country rock totalmente scialbo e anonimo che denota una mancanza di ispirazione davvero allucinante. Tanto per chiudere in (si fa per dire) bellezza bocciatura totale e spietata per la canzone che chiude l'album, l'oscena "Shine On", una sorta di pseudo-gospel corale assolutamente plasticoso e irritante con un testo da catechismo della CEI; in poche parole, il peggio del peggio nonché, mi sento di affermarlo con sicurezza, la più brutta canzone mai scritta da Dolly Parton che a questo giro, e mi dispiace moltissimo, si becca una bella stroncatura.
Tirando le somme, disco ai limiti della decenza da evitare accuratamente, e probabilmente la pensa così anche la stessa Dolly, che nel proseguo della sua carriera sfornerà album come "Halos & Horns" e anche l'ultimo "Backwoods Barbie" che questo "Hungry Again" se lo mangiano a colazione. Se volete davvero conoscere questa meravigliosa cantante al suo apice artistico, come ho già ribadito, puntate con decisione su qualcosa di più stagionato che, anche se culinariamente parlando sarebbe un controsenso, si rivelerà assai più fresco, saporito e godibile.
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