La 36enne del Quebec, di origini haitiane, dopo aver partecipato a “La Voix” (“The Voice”) nel 2015 ha preso il suo tempo prima di uscire con l’EP “Nameless” (ascoltatevi “Birds”: WOW!) nel 2018 (copertina blu a simboleggiare la schiavitù nera), primo di una triplice opera pensata in questi anni di studio culturale e musicale, al cui seguito è giunto “Stay Tuned!” (copertina rossa a rendere omaggio al sangue versato per l’ottenimento dei diritti) civili, ma anche a simboleggiare il calore e l’animosità espressi dalle donne e dagli uomini nella loro battaglia quotidiana) nello scorso 2019.

Quest’ultimo album le ha dato una certa notorietà e plurimi riconoscimenti a livello nord americano nel genere R’n’B e Soul, tra cui il “Vocal Jazz Album of the Year” ai Juno Awards 2020.

Dominique Fils-Aimé è semplicemente magnetica, riesce a creare attenzione con arrangiamenti spartani, ma mai banali, con un volume quasi d’accompagnamento, che ingenera la curiosità dell’ascoltatore. Questo è assolutamente un album da dissezionare uditivamente e sensorialmente (tanto che la cantante chiede ai propri concerti di tenere gli applausi per la fine dell’esibizione totale, lasciando il silenzio o ad alcune letture gli spazi tra un brano e l’altro).

Minimale, essenziale, questi sono gli aggettivi che più si plasmano su questo lavoro che comincia con meno di un minuto di “Feeling Good” (di Nina Simone), per dare il beneaugurante via (“It’s a new dawn, it’s a new day”) che riscopre le storie di personaggi cruciali, come Emmett Till, i “Little Rock Nine”, Rosa Parks, Joséphine Baker, Lena Horne e Martin Luther King, nelle dispute razziali. Non vi sono solo intrecci sociali e storici, ma anche musicali, questi intarsi acustici tra loop station, cori, interventi di tromba o di pianoforte, molto adatti a colmare i vuoti volutamente generati dalla stasi armonica, così come le percussioni di Elli Miller Maboungou e Salin Cheewapansri sono fondamentali e veramente ben dosate, a cavallo tra world music e sonorità più accattivanti più vicine a esperienze musicali più conosciute (Alicia Keys o Joss Stone).

Jacques Roy, bassista, produttore ed ingegnere del suono, riesce a coniugare perfettamente le atmosfere alle quali Dominique Fils-Aimé vuole farci partecipare. Dal Gospel al Jazz, dal Soul al Rhythm and Blues, dalla World Music al Pop. Questa è la soluzione auspicata dalla cantante canadese: un melting pot (la mescolanza) culturale (e musicale) come unica soluzione per l’inclusione di ogni genere.

Si sfiora il pop melanconico in “Revolution Serenade”, incatenato ad elementi soul e jazz, mentre si tocca con mano il gospel in “There is Probably Fire” o “Joy River”.

In “Big Man Do Cry” ci rivedo delle pennellate di Mahalia Jackson, mentre “Some Body” potrebbe essere quella che richiama di più l’attenzione delle radio per via dell’intro-ritornello, che si miscela con delle “strombettate” alla Miles Davis.

Il mantra di “9LRR” (Nine Little Red Rocks) fa riferimento alla storia dei nove ragazzi di colore che a causa della segregazione, a metà degli anni ’50, non potevano frequentare il liceo della città dell’Arkansas, Little Rock. Fu necessario l’intervento del presidente Eisenhower e della Corte Suprema, per permettere ai ragazzi di poter frequentare il polo scolastico.

In “Free Dom” c’è tutto il campionario musicale, canoro e concettuale dell’album, un vero riassunto delle capacità e sensibilità artistica di questa ragazza.

In questo periodo in cui il movimento “Black Lives Matter” sta prendendo la scena negli Stati Uniti ed in tutto il mondo, mi premeva presentare sinteticamente quest’album, molto significativo e di assoluto spessore musicale.

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