Roma, 4.I.2012.

Numerosi utenti del sito mi hanno invitato, nelle recenti festività, a tracciare un ritratto di don Luigi Verzè, prelato recentemente scomparso e fondatore dell'Ospedale S. Raffaele, già oggetto di una serie di inchieste giudiziarie relative a possibili fenomeni corruttivi ed estorsivi maturati negli scorsi anni.

Ammetto di essere stato preso in contropiede dal cortese invito, sia considerando il mio sostanziale ritiro dall'attività di saggista e recensore per DeBaser, sia a fronte della delicatezza del tema trattato, vuoi per il collegamento con la Fede - sempre foriero di polemiche in un sito essenzialmente laico o agnostico come quello con cui già ho collaborato - vuoi per la sua vicinanza con fatti di cronaca sui quali non si è ancora posata benefica la nottola di Minerva, nelle pur semplificanti forme del giudicato penale.

E' pur vero che con la morte di don Luigi tale accertamento non potrà mai riguardare la Sua persona, ed è pur vero che i rapporti fra Fede, Scienza e Morale sono fra i temi che, sin dalla mia passata collaborazione col sito, ho cercato di affrontare nell'interesse stesso degli utenti del sito e di qualunque lettore interessato. Di qui giorni di dubbio, ed io sospeso fra lo scrivere e l'astenermi da ogni intervento.

Giorni che sono stati superati anche grazie all'apporto di un religioso, che si è reso disponibile a recensire un'opera di Don Verzè mediante la tecnica, inedita anche per il sito, dell'intervista-dialogo: modello d'ascendenza platonica, come i più attenti avranno notato, che qui viene declinato a via dialettica alla conoscenza della Verità.

Ne offro un resoconto tanto sintetico quanto, a mio avviso, pregno di significato. Ogni ulteriore commento mi sembra davvero superfluo, salvo un'introduzione generale al tema del libro discusso: scritto da don Verzè alcuni anni prima della morte, è una riflessione a cavallo fra teologia ed esperienza sul significato del messaggio cristiano in epoca contemporanea, dove l'Uomo di Fede - ma a mio avviso l'Uomo tout court - non può agire fuori dal Mondo, e dal mondo economico in specie, dovendo egli stesso mettersi in gioco per rivelare, nel corso della vita, una teologia che è anche teologia economica, dove il danaro è instrumentum fidei, ossia strumento della (e per la) Fede.

PDL: Dalla lettura del libro di Don Luigi emerge una figura singolare di religioso. Egli si pone come Uomo di Fede attento a coniugare tanto la dimensione spirituale quanto la dimensione materiale dell'EsserCi, gettando un ponte fra teologia ed economia: quasi che la missione vivificante dell'uomo di Fede, nell'Italia dell'ultimo cinquantennio, non possa che passare per l'uomo che si fa imprenditore, e che come imprenditore annuncia il Vangelo.

R.: Osservazione corretta, nel fondo, ma da specificare. La figura di Don Verzè, certo nelle sue ambiguità, nelle sue contraddizioni, non è altro che la figura dell'Uomo, di ogni uomo di questa nostra tormentata epoca. C'è scandalo nel farsi evangelizzatore ed imprenditore, laddove nelle Scritture si tende a negare che il Regno dei Cieli sia del ricco, di chi non si spoglia di tutti i suoi averi nel senso francescano del termine; eppure, lo scandalo, la sua contraddizione, sono solo apparenti, se si considera come l'incontro con il prossimo non possa prescindere da un'offrire ad esso le proprie ricchezze, sul presupposto che esse esistano, e possano essere quindi redistribuite. L'imprenditore - nella dimensione cristiana di don Verzè - è quindi colui che rende possibile una distribuzione del bene creandolo, facilitandolo, ed accumulandolo: accumulo che non è fine a sé stesso, ma che è premessa per benessere collettivo e diffuso.

PDL: L'idea non è forse la stessa del calvinismo? Eppure, in don Verzè e nelle sue frequentazioni, sembra emergere ben poco di calvinista, di ascetico quasi. Emerge la figura di un religioso che si mette in gioco sino al punto di perdere i connotati dell'Uomo di Fede, così come lo si intende o come lo abbiamo ereditato dalla tradizione medievale, ed in parte moderna.

R.: Posizione corretta in apparenza, quella che mi prospetta, ma ambigua. Nel calvinismo, e più in generale nel pensiero protestante ben analizzato dal Weber, produzione ed accumulo di ricchezze sono pur sempre funzionali ad un progetto di salvezza individuale, opere che sono indizio di un progetto salvifico in atto, solo in parte governato dall'Uomo. Diversa la prospettiva di don Verzè: l'opera, il progetto economico, l'imprenditorialità nel settore sanitario, l'incentivo alla ricerca scientifica, sono strumenti che emergono nella dimensione intersoggettiva dell'Uomo che soccorre l'altro Uomo, specie dove lo Stato - e con esso le ideologie orientate in senso totalizzante e laicistico in senso marxista - dimostrano il suo fallimento economico-sociale, ideologico ed etico: se una struttura pubblica non è in grado di assistere i cittadini, il soccorso - sussidiario - del privato aperto all'annuncio evangelico realizza, al contempo, gli obiettivi della civitas terrena e della civitas divina, federando Uomo e Uomo, ed unendo l'Uomo alla dimensione ultraterrena.

PDL: Stimolante il riferimento al fallimento delle ideologie comuniste ed alla loro incapacità di organizzare lo Stato sociale. Sottolineo la cosa in quanto nelle originarie concezioni del potere totalitario - anche e soprattutto comunista - il messaggio di Marx sembra una forma di teologia larvata, o meglio una sostituzione della teologia cristiana con altra teologia, nel senso già ampiamente criticato dai romanzieri russi di metà ‘800. In Verzè, invece, è l'azione economica a presentare le tracce di una teologia, come pure di una presenza del divino nel mondo. In tale prospettiva può esser meglio colta la vicinanza di Don Verzè a riformatori che avversarono la falsa-teologia marxiana e marxista, come Craxi, ed, in anni, più recenti, a cattolici-integrali come Formigoni o a liberal-democratici come il Presidente Berlusconi? Nel libro l'aspetto non emerge in maniera particolare, eppure la tensione che lo innerva fa capire come per Don Verzè l'annuncio evangelico non potesse disgiungersi da un'azione che impone compromessi lontani dal "sia il vostro parlare sì/sì, no/no" ben rappresentato dalle Scritture, quale costo per la sua teologia economica. Non vi è una potenziale contraddizione in ciò?

R: Considerazione acuta, la sua, ma semplificatoria. Mi astengo, come ovvio, da interpretazioni politiche. Il punto è che don Verzè poteva realizzare i suoi obiettivi soltanto in comunione con i titolari di poteri politici in un determinato periodo storico: se vuole, si tratta di un realismo che ben conoscono gli Uomini di Fede, come testimonia tutta la vicenda dell'Ecclesia. Questo potere, come lo si voglia giudicare, era stabilmente detenuto dagli statisti che Lei ha testè menzionato, così da rendere Craxi, Formigoni e Berlusconi gli interlocutori naturali di don Verzè. E' probabilmente scorretto impostare il problema su una divisione manichea e parziale fra destra e sinistra, visto ad esempio che lo stesso Craxi era indubbio Uomo di sinistra, e che lo stesso Berlusconi ha una dimensione laicale e mondana emersa sia nella sua attività imprenditoriale che politica. In Verzè, del resto, non contava tanto la dimensione ideologica, quanto la connessione fra politica e prassi, fra dimensione teorica e pragmatica: ed è indubbio che Craxi, Berlusconi, per certi versi Formigoni allievo di don Giussani, siano tutti dei pragmatici. S'aggiunga, poi, che su temi come la ricerca scientifica, eutanasia e simili, la testimonianza di don Verzè si allontana da certe posizioni della Chiesa, finendo per avvicinarlo semmai al pensiero di certa sinistra libertaria. Ennesima prova del paradosso e della contraddittorietà dell'Uomo, da non cogliere come disvalore, ma come valore ed espressione dell'EsserCi nella storia, oltre gli appiattimenti imposti dall'ideologia ed i connessi giudizi liquidatori, che al dunque mascherano una preventiva e pregiudiziale adesione ad ideologie di senso opposto a quella che si giudica.

PDL: Il libro precede gli scandali di cui fu accusato don Verzè negli ultimi mesi di vita. Eppure, nell'adesione al messaggio evangelico, molti hanno visto una sorta di accettazione dei rischi dello scandalo, e del sacrificio stesso come innegabile conseguenza dello scandalo. Le confesso che quando il sito con cui collaboro mi ha chiesto di occuparmi di don Verzè, il pensiero è subito corso al capro espiatorio teorizzato da Renè Girard: agnello sacrificale su cui gli umori popolari scaricano tutta la loro colpa, per mondarsi la coscienza e rendere possibile la conservazione della società. Don Verzè rappresentava, per alcuni aspetti, la dimensione gaudiosa di un'epoca tramontata con la crisi economico-sociale che stiamo attraversando in questi anni. Le difficoltà economiche del S. Raffaele sembrano lo specchio della sua vicenda umana, ma anche di una vicenda politica: finita l'alleanza con i grandi referenti politici, anche la struttura e l'Uomo si sono trovati soli, ed esposti alla vendetta di una società che non li ha più riconosciuti come propri membri (con)dannandoli ben prima degli accertamenti dei giudici.

R. La sua riflessione tocca puntualmente il cuore del problema, senza metterlo però nel giusto fuoco. Lei cita dottamente Girard, ma non considera che nei meccanismi sacrificali connessi a tutte le antropologie l'agnello sacrificale è offerto, subisce passivamente la sua condizione, ma non si offre ad essa. Ed, al contempo, che la vittima sacrificale è individuale ed individuata, e quindi separata (separabile) dal contesto sociale di riferimento: nella sostanza, il ruolo di vittima implica un'alterità passiva che non ravviso in don Verzè e nella sua vicenda umana. Sottolineo - proprio alla luce di questo libro - come in lui il sacrificio fosse in qualche modo preventivato, vorrei dire preparato, nell'immergersi nel mondo e nel cercare il divino nelle pieghe in cui nessuno lo sospetta: quand'ebbe a definire Silvio Berlusconi come un dono divino, Verzè stesso voleva sottolineare la dimensione dell'incontro con l'inatteso e l'esistenza di schegge di bene dove la maggioranza farisaica lo esclude, sino al punto di bollare come immonda quella frase. Al contempo, Verzè non agiva isolato: era pur sempre pastore e non agnello, laddove i suoi agnelli sono tutti gli uomini che con lui ebbero a lavorare, eccellendo nella medicina dei corpi ed in quella filosofia che è medicina delle anime, e la lana prodotta dal suo ovile i frutti dell'intera sua opera.

PDL: Un'ultima riflessione, per concludere. Ammesso e non concesso che i metodi di don Verzè fossero poco ortodossi, mi sovviene la rappresentazione del demoniaco Voland in Bulgakov, altro sottile critico del pensiero totalitario: colui che vuole il male ma eternamente compie il bene, uscendo a questo scopo dagli schemi, e creando disordine, laddove prima c'è un ordine frutto più delle tendenze conservatrici e dell'apparenza, che del reale. Personalmente non credo che Verzè volesse il male, ma non escludo che accettasse il male nei mezzi per compiere un bene di ordine superiore. Forse errando, non accettando la radicalità di certi messaggi religiosi, ma agendo secondo un disegno di ordine moralmente superiore a quello che noi semplici mortali possiamo cogliere. Tutto il libro che abbiamo letto assieme conferma questa lettura del personaggio, a mio parere, la chiave per coglierne l'agire.

R. Le rispondo con una serie di domande. Quante vite ha salvato don Verzè e quante speranze ha ravvivato con la sua struttura sanitaria? Per quanti uomini di scienza e cultura la sua Opera è stata riparo? Se anche avesse contribuito a salvare una sola vita, e a rendere libera la ricerca di un singolo uomo di scienza, avrebbe fatto molto di più di tanti fra coloro che si affannano, in queste settimane convulse, a giudicare. Immemori del fatto che il giudizio allo stato puro è solo divino, mentre i giudizi degli uomini non sono che incompleti, parziali e figli di stati emotivi momentanei, se non di una matrice giacobina.

PDL: Penso anch'io sia così. Forse il giudizio non spetta agli uomini, ma solo all'Ordine superiore entro il quale agiva nella Storia anche Don Verzè, per chi vi crede. Per i laici, resta buona regola ponderare ogni giudizio e chiedersi, kantianamente, come si sarebbero comportati al posto di don Verzè: allontanarsi dal mondo verso una contemplazione che non salva vite, ma appaga lo spirito del contemplatore, o immergersi in esso, fors'anche compromettersi con esso, per soccorrere chi era nel bisogno? La ringrazio, anche a nome dei miei lettori, per le riflessioni stimolanti.

R: La ringrazio io, e ringrazio il sito per l'ospitalità offertami.

Terminata l'intervista, e l'incontro con il religioso, confesso che in me i dubbi sulla figura di Don Verzè sono aumentati, non si sono dissipati. Ma il viatico per la Verità è lastricato di tali e tanti dubbi, da non turbarmi. Spero che ciò valga anche per l'utenza media del sito, spesso manichea, ma mai come in questo frangente chiamata a soppesare le parole, prima di commentare in modi affrettati e superficiali, guidati da pregiudizi ed ideologie che questo dialogo ha cercato di allontanare.

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