Recensire un album di Donald Fagen è sempre una piccola impresa , e l'ultimo, "Morph The Cat", non fa eccezione. Sfortunatamente con essa ti puoi cimentare molto di rado, visto che i lavori pubblicati in più di un ventennio sono solo tre: un ritmo da vero killer del cosiddetto mercato musicale. Mi piace pensare che egli, quotidianamente, senza preoccuparsi delle pressioni di tanti, soprattutto di quelle di discografici, agenti e promoters, con una lentezza ed una cura anacronistiche, mescolando nelle giuste dosi pigrizia, egoismo, rispetto per i fans  e amore per la musica, stia lì, in quella monacale stanza che appare sulla cover, a perfezionare, a ritoccare canzoni che nascono già con quella struttura tipica; canzoni che potrebbero, se non fossimo al cospetto di un freak della sua levatura, alieno da qualsiasi ansia o avidità, vedere la luce certamente in molto meno di una decade.
Ma Donald non è artista da mezze misure. I tempi sono questi: prendere o lasciare. Una posizione resa inattaccabile sia dalla vera e propria "fede" di cui è oggetto da parte dei suoi tanti estimatori che dalle royalties dei long-sellers degli Steely Dan, che gli assicurano il classico "tozzo di pane" ed anche un buon companatico.
Una piccola impresa, si diceva, perché trovare aggettivi non consunti, letture originali di questi pezzi è piuttosto difficile. Essi hanno, come sempre, innato il dono della classicità, esprimono un equilibrio mirabile tra vita pulsante, passioni irrefrenabili, asocialità felina (The Cat) e compostezza formale, un vero distillato di suoni; verrebbe quasi voglia di dire, che il filosofo mi perdoni, un perfetto connubio di "dionisiaco" e "apollineo". La ribollente materia dei testi, talvolta criptici e allusivi, altre ironici se non caustici, si raffredda e si confonde con quella miscela inconfondibile di jazz, pop, blues, che risulta magnificamente elaborata e ricercata, di "classe", senza mai dar l'idea dell'affettazione, dell'eccesso di formalismo.

Ad un primo ascolto degli otto brani di "Morph The Cat" si è tentati di archiviare il tutto con un "buono, ma molto simile agli altri due". E il giudizio non sarebbe sostanzialmente sbagliato, né potrebbe rappresentare una critica, anzi. Alcuni grandi artisti, anche nel pop, modificano e riscrivono in genere la stessa opera; parliamo, in questo caso, di quei "cavalieri senza macchia" che sono votati alla ricerca del "Santo Graal" della perfect-pop-song. A differenza di altri impegnati nella stessa interminabile impresa, Donald  è forse quello che gioca più a carte scoperte, che fa di meno per dissimulare ciò, evitando perfino di dare ai sudati nuovi brani una patina almeno di "originalità", buona per qualche gonzo affetto da "nuovismo".
Solo ad una più attenta analisi, però, dopo averlo sentito più volte e in diverse ore del giorno e della notte, essi rivelano la loro personalità non di semplici epigoni, tutte le loro delicate sfumature, quegli incredibili aromi che solo il nostro sa donare con una maestria ed un'eleganza pari solo alla parsimonia. Dal sinuoso andamento della title-track, ennesimo canto alla vita raminga ed eslege, con un pastoso basso per protagonista che ti conduce con passo felpato nei meandri di NYC,  alla più "fageniana" di tutte, "H Gang", evoluzione, nel senso che tale termine assume per il nostro, di brani più "pop" come "New Frontier"; dal toccante dialogo  immaginario con The Genius ( What I Do / I say "Ray, why do girls treat you nice that way?" / He said it's not what I know / What I think or say...), con un'armonica che doppia il brano che sembra dare voce del grande bluesman, alla beffarda conversazione jazzy  con la morte di "Brite Nitegown", con un ritornello che ti "buca" le meningi, ripetuto come un mantra ("You can't fight with the fella / In the Brite Nitegown...).
In "Great Pagoda Of Funn", uno dei titoli dell'anno, egli non ha remore nel far appello a tutto il suo mestiere per dare libero sfogo al suo ego "architettonico", una ballad, una costruzione musicale di 7 minuti e passa, con una tromba "tagliente" e un assolo di chitarra memorabile, che dovrebbe suscitare l'ammirazione incondizionata di tutti coloro che masticano qualcosa di musica. Le inquietanti presenze di "Mary Shut The Garden Door", forse per groove e leggerezza la vetta dell'album, confermano la capacità dell'artista di saper far coesistere visioni oniriche, in tal caso quasi horror, con una musica solare e apparentemente spensierata

Un lavoro che, come ha affermato lo stesso Fagen, rappresenta il terzo pannello di un trittico, giovinezza - "Nightfly", maturità - "Kamakiriad", il confronto irrimandabile con "the fella in the brite nitegown", o meglio, per noi europei, con colei che gioca a scacchi nel "Settimo sigillo" di Bergman in "Morph". Ciò ha rafforzato la mia idea che Fagen per attitudine realistica, attenzione verso le forme, dedizione al dettaglio potrebbe essere paragonato ad un pittore fiammingo. E se questo mio parallello ha un minimo di sussistenza, com'è possibile perdersi proprio l'ultima "tavola" di un'opera di così grande respiro, dai colori intensi e luminosi, dai magnifici chiaroscuri? Il mio consiglio è di non rinunciare a guardare questo trittico nella sua interezza: l'artista lo merita.

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