1969.

Già gli acidissimi bendings di chitarra con cui si apre la prima canzone che dà il nome all'album ("Barabajagal" per l'appunto...) ci fanno capire che qualcosa è cambiato in Donovan. La prima traccia è una filastrocca giocosa e sensuale dal ritmo accattivante, con un ritornello che non si schioda più dalla testa e per di più inpreziosita dalla fender stratocaster di un certo Jeff Beck. Si, è cambiato davvero qualcosa...

Si avvicinano i '70, la psichedelia comincia a svanire, e il nostro Donovan cerca di stare al passo coi tempi. Senza però dimenticare le sue origini, le sue peculiarità che l'hanno fatto conoscere e apprezzare dal grande pubblico. "Superlungs My Supergirl" riprende la sensualità della traccia precedente, e l'amplifica a sua volta grazie a un riff di basso e ad un cantato incisivo che fa letteralmente sciogliere l'ascoltatore. Il testosterone è troppo alto. Ci pensa la dolcissima "Where Is She" con i suoi flauti magici, il ritmo lento e fluido, la voce che sembra rompersi in un pianto, a quietare i bollenti spiriti. A questo punto, ecco l'apogeo. "Happiness Runs" vale l'intero disco. Dopo un'introduzione melanconica ed eterea il ritmo si velocizza per poi trasformarsi in una sublime ninna nanna / filastrocca che ci riporta al '67 e al folk-psichedelico del "vecchio" Donovan. Stupenda. Si cambia ancora. Dalla melanconia si va alla più sfrenata spensieratezza: "I Love My Shirt" è un fantastico pezzo freak, con una linea vocale giocosa che resta impressa. Il ritornello poi è da cantare a squarciagola in totale serenità, magari durante un bizzarro tea party nella campagna inglese.

"The Love Song" è una canzoncina leggera, diciamo la più easy-listening dell'album, che non fa altro che riprendere lo stile fanciullesco di Donovan. "To Susan On The West Side Waiting" ci riporta ad atmosfere più soffuse, ricercate, intimistiche. Bella. E poi arriva "Atlantis". Semplicissima, epica, tesa verso il cielo, o forse verso il più profondo oceano. Donovan parla di mitologia, di marinai, di re anti-diluviani mentre un climax ascendente pieno di pathos fa innalzare il tutto fino ad un'esplosione: e poi il ritornello, immediato ma non banale, che sembra via via ripetersi all'infinto. Anch'esso da cantare a squarciagola! Ci stiamo avvicinando alla fine e "Trudi" in un certo senso rompe la magia, riportando l'ascoltatore a ritmi più ballabili e chitarre un po' jazzy (N.B. la parte strumentale è sempre firmata da Beck e dal suo Group). "Pamela Jo" chiude l'album nel modo migliore possibile. Facendoci sorridere. Testo immediato, semplice ed efficace melodia, un pezzo tutto da cantare che mette ancora una volta in risalto la capacità che ha Donovan nello scrivere piccole canzoni gioiello che trasmettono spensieratezza e festosità.

Davvero un gran bel disco, sottostimato come d'altronde lo è purtroppo il suo autore.            

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