Il nome di Donovan è indissolubilmente legato agli anni '60: quello è stato il suo periodo di massima popolarità e di maggior splendore artistico, e tutti i suoi album da "Fairytale" fino a "Barabajagal" sono degli autentici gioielli: folk, psichedelia, influenze jazz, rock, pop, orientali, filastrocche per bambini e visioni allucinate, una capacità di creare melodie a dir poco sbalorditiva. Donovan però non è mai stato una rockstar, un grande personaggio, e non è stato capace di vendersi bene: finì così per essere associato in maniera fin troppo stretta alla cultura hippie e, quando questa cessò come fenomeno di massa anche Donovan scivolò in secondo piano. Ovviamente, questo non vuol dire che sia "morto" nel 1969, no, niente affatto: la sua carriera continua su alti livelli e per salutare il nuovo decennio pubblica un album inconfondibilmente donovaniano ma fresco e pieno di nuove idee, per alcuni aspetti di rottura con il recente passato: "Open Road".
Dopo un album spudoratamente (e magnificamente) poppettaro come "Barabajagal" con le sue "I Love My Shirt" e "Pamela Joe" Donovan vira verso un suono più rock; questo comporta un cambiamento strutturale di non poca importanza, infatti si interrompe la collaborazione con il suo storico produttore Mickie Most: Donovan prende il timone in prima persona e si affida ad una vera rock band: Mike Thomson alla chitarra e al basso, Mike O'Neill alle tastiere e John Carr alla batteria. "Opern Road", il risultato finale di questo nuovo progetto è un album immediato, ben costruito e molto orecchiabile, però necessita molti ascolti attenti ed approfonditi per essere assimilato ed apprezzato per quello che vale, questo perché si tratta di un album assai omogeneo del punto di vista qualitativo; non c'è nessuna canzone che svetta sulle altre e, per quanto riguarda l'appeal e l'immediatezza questa è una piccola pecca. Tuttavia questo disco mette in mostra un sound bellissimo e particolare: siamo nel 1970, il glam rock comincia a prendere piede e Donovan, che di questo sottogenere è stato uno dei principali ispiratori, ci si adatta e lo amalgama al suo stile con ottimi risultati, basti pensare all'iniziale "Changes", rock facile e trascinante, bellissimo riff di chitarra e l'inconfondibile vocalità di Donovan che è quanto di più adatto ci possa essere al glam rock; questo cantato sottile, ammiccante e sensuale abbinato ad un rock leggero e orecchiabile forma una grande alchimia, che si riscontra anche in canzoni come "People Used To", "Song For John", "Riki Tiki Tavi", vagamente isterica ed irresistibile, un'incalzante e sardonica "Poke At The Pope" e il languore indolente di "Clara Clairvoyant", scandita da fraseggi blues ed un refrain potente e psichedelico, tutte grandi canzoni, in cui idee e suoni nuovi vengono fatti propri dall'artista con assoluta naturalezza e classe.
Ovviamente non mancano episodi che si ricollegano al vecchio stile di Donovan, una ballata rarefatta e lisergica come "Curry Land", che sembra quasi un restyling in chiave rock delle sonorità di "Mellow Yellow", a cui si può ricollegare anche il pop ambiguo della sonnolenta, sospirata ed insinuante "Joe Bean's Theme", mentre "Season Of Farewell" evoca sensazioni più distese e rilassate, di psichedelia dolce e contemplativa. Ci sono infine due canzoni intrise di suggestioni celtiche, l'oscura "Roots Of Oak", in cui rivivono rituali magici ed iniziatici di antichi druidi, in un'atmosfera elettrica, tesa e carica di tensione e il brano considerato da Donovan medesimo il simbolo dell'album, ovvero "Celtic Rock", una marcia epica ed incalzante, dall'incedere quasi teatrale a partire dal cantato magnificamente sopra le righe, in cui si mischiano sonorità celtiche ma anche orientali, mettendo in grande risalto il lavoro di tutti membri della band in una dirompente fuga strumentale.
Per nulla inferiore ai suoi predecessori, "Open Road" è veramente un gran disco, non poteva esserci modo migliore per salutare il nuovo decennio; purtroppo segnò l'inizio della fine del successo commerciale di Donovan, ma questo è un dettaglio insignificante: benché i fatti (dati di vendita) apparentemente dimostrino il contrario, siamo in presenza di un'artista intelligente, furbo e camaleontico, che ha saputo reggere benissimo il passare degli anni e delle correnti musicali navigando con perizia e genialità sulle coordinate del suo genio. "Open Road", il primo album dell'ottima produzione anni '70 del cantautore scozzese ne è un lampante e splendido esempio.
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