Facciamola breve e chiara, mettendo subito il carico da undici. Vi piace Aretha Franklin? Bene, questo è il più bel disco di Aretha Franklin che Aretha Franklin non ha mai fatto. O meglio: questo è il disco che Aretha Franklin avrebbe fatto se fosse stata Etta James. Buum! Inutile, lo sento, dall'altra parte del monitor, che son partite le urla di scherno. Ma è così. Capisco che la mia parola non possa bastarvi. Chiamerò allora al banco dei testimoni uno che di questa materia se ne intendeva assai, quel Dave Godin compianto (R.I.P., maestro) cantore della black music dell'Età dell'Oro. Costui, dalle colonne di quel Testo Sacro volgarmente chiamato rivista a nome "Blues & Soul" (quanto potrei pagare per possederne la collezione? Sei mesi di stipendio? Ok, non fosse che guadagno troppo poco, come mancia ci metto tutto il math-rock in mio possesso...) nell'agosto del 1970, così si esprimeva:
"Quella dell'encomio è arte difficile (purtroppo è assai più facile scrivere una stroncatura che una recensione positiva) ma metterò da parte ogni cautela per proclamare con gioia assoluta che "I'm a loser" di Miss Duke è il miglior LP che io abbia mai ascoltato, magnifico esempio di soul music che in futuro si conserverà vivido e fresco così come oggi lo ascoltiamo." - Dave Godin, "Blues & Soul" n.41
Esagerato? Direi proprio di no. Di esagerato vi è semmai il fatto che chi produsse una simile meraviglia ci abbia in seguito donato solamente una paio di repliche a 33 giri (pure il secondo merita eccome), viceversa eclissandosi e non facendo più pervenire a tutt'oggi alcuna traccia di sé dal lontano 1975. Ma tant'è. La Doris nata Curry, poi coniugata Willingham (è col cognome del primo marito che siglò i suoi esordi a 45 giri), infine artisticamente ribattezzata Duke, dal nome di una celebre ereditiera del tabacco dei primi del Novecento, se non divenne ciò che il titolo del suo secondo LP annunciava ovvero "A legend in her own time", fu solo perché i percorsi del merito e del successo una volta di più viaggiarono clamorosamente in parallelo e vallo mai a sapere il motivo. Poi, una volta ascoltato "I'm a loser", è lecito domandarsi chi sia davvero il pazzo, tu o il mondo intero che non salutò ammirato tanto ben di dio.
Le firme in calce alle canzoni sono già di per sé una garanzia: Jerry Williams alias Swamp Dogg (altro nome cui si dovrebbe, reverenti, accendere ceri votivi), Gary US Bonds e George Williams. La voce sudista calda e liricamente intensa della Duke fa il resto. "Liricamente intensa" non è detto a caso. Sono dodici brani che descrivono infatti - quasi fosse un concept - lo spleen di un'anima a diretto contatto con il dramma dell'infelicità sentimentale e della disperazione che, in altri territori, forse solo Billie Holliday prima di lei aveva esplorato così a fondo. Ascoltiamo il giro elementare di piano, accompagnato dal ticchettio di rullante che introduce l'iniziale "He's gone", titolo che è già tutto un programma, incrocio tra intensità da gospel laico e soul ballad che declina versi quali: "Si vive una volta sola...e non è garantito" e ci è pertanto subito chiaro tra quali coordinate ci muoveremo. Anche laddove l'errebì di matrice Stax mostra i suoi lati più solari quando non funk - "I can't do without you", "The feeling is right" e "Congratulations baby", che paiono davvero tutte rubate al repertorio della migliore Etta James - le liriche e i melismi ci conducono verso tensioni da mozzare il fiato (per dire, la sposa che abbandona il suo uomo proprio sull'altare, "una voce nella mia testa mi dice 'scappa, ragazza, scappa'..."). O magari si precorre il suono-Hi - qui troviamo già tutta la Ann Peebles di metà Settanta -, tanto in "Divorce decree" (altra bella vicenda di fallimenti relazionali), quanto nella sublime "How was I to know you cared". Quando poi si torna in territori in cui l'organo tiene chiesastico bordone a secche ballate elettriche che solo Aretha tra le dee e Betty LaVette tra le semidee han saputo rendere con simile pathos ("Ghost of myself", altro titolo che si spiega da sé, "Your best friends" e chissà mai qui di che cosa vorrà parlare..., "We're more than stranger", di nuovo Etta al suo meglio) il nostro viaggio al centro dell'anima che sanguina pare avere toccato il fondo. Errore.
C'è ancora spazio per un anticipo di Philly-sound falsamente lieto e mai contrasto tra liriche e musica fu così stridente ("Feet start walking" e "I don't care anymore", qui si descrive una discesa negli abissi della prostituzione). E non basta. Non contenta di aver provato ad aggiornare in chiave soul Billie Holliday, Doris Duke sul finale dell'album ammoderna pure James Carr, regalandoci quella "The dark end of the street" riveduta e corretta che è "To the other woman (I'm the other woman), ballata definitiva in cui l'amore clandestino di una donna per un uomo sposato mostra tutto il suo impotente dolore, voce lacerata da brandelli di elettrica e dal consueto Hammond dolente.
Ma non c'è niente da fare, Doris ci aveva già detto tutto nei titoli. Tra "I'm a loser" e "A legend in her own time", purtroppo, ha avuto la meglio il primo...
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