A volte quando ci troviamo davanti a determinati paesaggi, penso a quelle che possono essere distese di prati oppure gli interni di un parco, quando non c'è nessuno, ci sembra quasi di guardare un quadro oppure una fotografia.

Il pensiero va principalmente a una certa arte pittorica e che del resto costituisce una forma di espressione artistica che ha sempre considerato i 'paesaggi' come uno dei soggetti tipici e ricorrenti e questo in diversi generi e movimenti nel corso dei secoli fino ad oggi.

Quello che accade allora può essere curioso: perché non pensi al paesaggio in se stesso e per quello che è, ma lo consideri quale raffigurazione, una rappresentazione che è stata disegnata e dipinta in un determinato modo e come tale questa ti appare intoccabile. Come se questo fosse già di per sé un quadro e dove tu, se ci entri dentro, diventi un elemento estraneo: una specie di errore perché, ecco, tu dentro quel dipinto effettivamente non ci dovevi mica stare.

Ma a parte questo, se tu entri dentro un dipinto, poi come fai a guardarlo. La cosa messa in questi termini effettivamente non avrebbe senso, se ci pensate, perché i dipinti sono apparentemente fatti solo per essere guardati. Anche se ci vorresti invece vivere dentro.

Non crediate che per questo essi siano tuttavia immutevoli: sono convinto infatti che ogni volta che guardiate un dipinto con attenzione, potreste notare in esso dei minimi cambiamenti e in fondo è lo stesso per la realtà che ci circonda. Se fotografate un determinato posto ogni giorno pure alla stessa ora, noterete alla fine che questo in qualche maniera è cambiato nel corso del tempo. Questo significa che è impossibile fermare il tempo e anche quando lo vuoi immortalare su di un quadro oppure con una fotografia oppure ancora dentro un filmato video, alla fine siamo destinati a fallire.

Doug Tuttle con questo suo ultimo disco cerca tuttavia di andare oltre questo concetto e di battere letteralmente lo scorrere del tempo nella rappresentazione di 'paesaggi' musicali che siano allo stesso tempo rilassanti, sognanti (magari anche misteriosi) e evocativi come quello raffigurato sulla copertina del disco (foto di Amanda Bristow).

Polistrumentista proveniente da Boston nel Massachussets, Doug David Tuttle ha pubblicato il suo ultimo disco lo scorso maggio rinnovando la partnership oramai consolidata con la Trouble In Mind Records di Chicago, Illinois. Il disco è stato interamente concepito da Doug, che ha scritto e registrato da solo tutte le canzoni, riuscendo a proporre un lavoro ('Peace Potato') che riesce a essere una anomalia e completamente imprevedibile nei suoi contenuti pure in un momento storico in cui pare non ci si possa sconvolgere per nulla e dove specie in un genere che oramai secondo molti si va esaurendo come la neo-psichedelia, tutto sembra già fatto.

Ci riesce praticamente dipingendo quindici canzoni che sono per la verità quindici brevi episodi e scorci di paesaggi dalla durata variabile tra i trenta secondi e massimo i tre minuti: una scelta molto particolare e dove alcune canzoni sembrano quasi costituire delle sperimentazioni oppure delle demos, o quelle che si potrebbero definire delle b-sides e che a volte sembrano quasi qualche cosa di incompleto e dove alcune volte queste si interrompono persino in maniera brusca per dare subito spazio alla traccia successiva.

Un musicista particolarmente capace e consapevole di quello che sta facendo e cercando di proporre al suo pubblico, possiamo accostare Doug Tuttle a suoi grandi maestri come un musicista come Dino Valente e in particolare a un chitarrista e compositore come George Harrison. I suoi rimandi alla psichedelia anni sessanta del resto sono evidenti in ogni composizione sin dalla prima traccia, 'Bait The Sun', una ballata pop psichedelica negli arrangiamenti e per l'uso caratteristico di organi vintage, e comunque in tutte le canzoni presenti nel disco

Le stesse suggestioni permeano l'interezza dell'opera da 'YCNTOIO' a l'episodio solo strumentale e sperimentale di 'Life Boat', gli arpeggi e la 'coda' strumentale di 'In Your Light', le visioni Simon & Garfunkel della title-track, la ballata onirica 'Only In A Dream'. 'Can It Be', 'Don't Worry', 'It's Alright With Me, Ma' possono rimandare tanto a un certo David Bowie quanto a gruppi come i Kinks oppure o Byrds ('You Have Begun') come a realtà musicali contemporanee della scena neo-psichedelia come Temples o Jacco Gardner ('All You See') e la sensibilità di Bill Fay ('Home Again', 'But Not Of You'...).

Del resto, senza volere fare nessuna forzatura, questa opera mi ha ricordato sul piano concettuale proprio un disco di Bill Fay, cioè quel 'Tomorrow Tomorrow Tomorrow' rilasciato nel 2005 a nome Bill Fay Group e che pure si presentava come una raccolta di composizioni pop psichedeliche con suggestioni progressive e una certa attitudine lo-fi per la tipologia di registrazione e la struttura del disco

La sensazione finale davanti a questo disco non è esattamente quella di trovarsi davanti a un capolavoro. Eppure 'Peace Potato' ha qualche cosa di magico che ti spinge a rimetterlo daccapo e riascoltarlo per intero ogni volta che finisce in una specie di continuum dove invece che fermare il tempo e questi 'paesaggi' che ti scorrono davanti agli occhi della mente, ti addentri finalmente dentro questi 'quadri' senza sentirti fuori posto e cominci invece a correre finalmente libero sui prati e senza pensieri.

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