Ci sono voluti ben undici anni per avere, finalmente, un nuovo album dei Doves.

Con Jimi Goodwin e soci ci eravamo lasciati dopo l’ottimo “Kingdom Of Rust”, seguìto dopo un solo anno dalla raccolta “The Places Between”, che sembrava sancire la fine definitiva di un percorso artistico pressoché impeccabile. Successivamente, lo stesso Goodwin ha esordito da solista nel 2014, mentre i restanti membri hanno fondato una nuova band, i Black Rivers, che hanno dato alle stampe il loro debutto giusto un anno dopo.

Dopo una serie di concerti un anno fa, i Doves si sono chiusi in studio e finalmente hanno dato alle stampe questo nuovo “The Universal Want”, prodotto dalla stessa band assieme a Dan Austin e registrato tra Macclesfield, Stockport e Alcester. Composto da dieci brani inediti, il nuovo lavoro della band mancuniana riprende esattamente da dove ci eravamo lasciati un decennio fa, come se tutto questo tempo non fosse mai passato.


Si tratta, infatti, di un disco quintessenzialmente “dovesiano”, che guarda in alcuni episodi al passato (come nel caso di “Cycle Of Hurt”, che sembra ripescare certe atmosfere del mai dimenticato “Lost Souls”, o del nuovo singolo “Broken Eyes”, che prende i Doves più classici e li imbastardisce con gli Smiths – vedi il finale, a richiamare palesemente “There Is A Light That Never Goes Out”) ma si concentra soprattutto nel riposizionare il trio mancuniano in un presente ben diverso rispetto a quello di undici anni fa.

“Carousels” apre il disco in maniera eccezionale con un delizioso sample del compianto Tony Allen; l’impianto ritmico del pezzo è davvero fantastico, non a caso il brano è stato scelto per il ritorno sulle scene della band. E anche il resto del disco non fatica nell’entusiasmare, dalla spinta elettroacustica della delizosa “I Will Not Hide”, sul quale va ad incastonarsi un azzeccatissimo solo di chitarra elettrica, alle fascinazioni bowiane (dichiarate) della spettacolare “Cathedrals Of The Mind” (che fa da ponte di collegamento col precedente “Kingdom Of Rust”), fino ad un singolo smaccatamente radiofonico - ma con classe - come “Prisoners”.

E così anche l’afflato trip hop di “For Tomorrow” e la titletrack (tra piano ballad e pulsioni Hacienda style, non a caso nella prima fase di carriera i Doves si chiamavano Sub Sub e facevano dance) finiscono per convincere.

Un grande ritorno, che rende giustizia ad una band mai abbastanza celebrata.

Brano migliore: Cathedrals Of The Mind

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