Ascoltandolo mi viene che tutto è un po' straccione, un po' atteggione, un po' belloccione, un po' barbone, un po' cafone, un po'... Quanta gioventù di strada, quanta malinconia distaccata, quanta gioia eternizzata.

Dejà vu prima che arrivino, ricordi immediati prima di sedimentare in passato, il nostro fantasma che canta prima della nostra carne. La sensazione di vivere rarefazione concreta in un on the Road psichico lontano da cliché mistici.

Di tanto in tanto, da quelle arie pop rock new wave, partono quegli assolo di chitarra che spazzano via tristezze tentatrici, e il cielo è cristallino, e a bordo della tua decappottabile un po' ammaccata, l'aria che ti scompiglia la chioma ti fa sentire che sei tu il circo, sei il trapezio e il trapezista nello stesso momento, e la rete non c'è.

C'è tanta solitudine che ti fa una compagnia incredibile nell'accompagnarti verso sparizioni come il sole, la sera, all'orizzonte. La senti nel retrogusto quell'aria western evoluta, che questa volta non è intransigente nel volere la tua sofferenza, ma invita ad entrare, come solo quelle canaglie degli angeli tentano, in una zona dove il dolore è cosciente cosicché possa trasformarsi in quell'invisibile che ci necessita aiutandoci a considerare la sofferenza più "leggera", facendoci capire i nostri compiangimenti soggettivi. "Ognuno è felice o infelice tanto quanto si è convinto di esserlo".

E perciò maturo e pericoloso risulta tutto l'ambaradan, pieno di un ludo millenario che si pavoneggia nella sua trasandatezza. Mentre scorrono le note constatiamo in noi un piacere sopraffino che passa da staffilate di mistificazione d'esuberanza di non piangere sul latte versato degli eterni ritorni.

Nasciamo soli, moriamo soli, ma che bello quando stiamo insieme con gli amici.

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