Pensando all'ultima fatica dei DT si sarebbe indotti a citare frettolosamente la massima gattopardiana secondo cui è bene che tutto cambi affinché tutto rimanga come prima. Considerazioni naive; già la forza della nuova copertina nella sua dolce brutalità ci dice quanto pesi l'assente.

Un fiero equilibrista che delle sue residue candele accende il sole: al suo scorrere un illusorio strappo alla fune che lo sorregge trasmuta gemme oscure in diamanti sonori. Non c'è pregio nella virtù così come non esiste disincanto nell'errore; questo in termini caleidoscopici il significato immediato che trasmette il protagonista del nuovo giardino dei DT.

Viandante il cui incerto scorrere su un drappo morente lo rende paradossalmente più sicuro nelle umbratili coltri solcate dall'aereo che affiora tra le nubi; claudicanza dell'assente Portnoy o bifronte sicurezza del presente Mangini?

Difficile dirlo, certo è che il discreto Ego di Petrucci qui, momentaneamente scevro dall'oppressione del coscritto Portnoy risulta libero di esprimersi in tutta la propria lineare egemonia. Follie circolari; a solcarne il diametro un estro immutato da quell'incantesimo chiamato "Images & Words". Perché In fondo il ricamo sonoro che da poco di un ventennio costella le vette del prog ha costantemente richiamato vividamente l'eterno ritorno di una placida nave dipinta in un oceano dipinto.

Logico quindi che dopo due decenni di riproposizioni ideologiche l'inevitabile antagonismo (preannunciato da quel meraviglioso brano del precedente album intitolato Whiter) tra le due monadi del gruppo non abbia creato l'inevitabile coazione a ripetere. E così nella più impietosa delle belle verità il tempo ha restituito "A dramatic Turn Of Events". Disco la cui bellezza è dozzinale solo in apparenza come dozzinale può considerarsi la multiforme identità dell'occhio che nello stesso volto scorge identità diverse.

L'incipit è pura e semplice iridescente bellezza di un sole rabbioso: arpeggi oscuri introducono un articolato brano che solca le "spalle degli angeli"; momento lineare e di per sé disilluso nella propria originalità, alfiere tuttavia dell'estro creativo sia di Petrucci, capace di introdurre strofe giocate su ritmiche accelerate, che dell'"esordiente" Mancini. Batterista quest'ultimo che nel nuovo proscenio figura nella veste di subattore occulto; fiero ed a tratti subordinatamente ipocrita imitatore dell'involontario antagonista-predecessore in questo lavoro esegue silente un astuto lavoro operaio; coadiuvare la vivida egemonia di Petrucci cancellando (ma in realtà, tentando vanamente di accantonare) Portnoy. Una inattesa invariante invece è da ascrivere alle ghirlande sonore di Rudess, mediano corporativo eppure abile nel farsi apprezzare per un lavoro vario che affianca al solito tappeto orchestrale alcuni contrappunti moderni.

Infatti il tenebroso affare subito ritorna nella sua precedente identità; Build Me Up Break Me Down, riprendendo quel limite "tecnologico" di Portnoy assomiglia nella sua irrequietezza più ad un pezzo dei Linkin Park che a uno dei Dream Theater, anche grazie a un LaBrie filtrato la cui voce ci scivola addosso un po' come la canzone, ruffiana benché sapientemente accattivante.

Decisamente più riuscita invece Lost Not Forgotten dove l'intro pianistico scruta l'effimera quiete per poi erompere in una litania di un meraviglioso prog malinconico; rabberciata in un riff chitarristico oscuro e granitico la canzone quasi senza volerlo erige un vivace ritornello che fatica non poco ad esulare dalle memorie dell'ascoltatore; cambi di tempo e accelerazioni sincopate ne pietrificano le immagini. Vividamente imperscrutabile l'incommensurabile gioco dell'Amore; torneo esistenziale capace di dissolvere nel tempo di un mattino memorie, illusioni, tornei lirici, schizoidi disarticolazioni sonore, disincantate gioie, placidi e dolori.

Petrucci questo lo sa e non esita a scolpirlo in uno dei brani più belli del lavoro dove le liriche erigono mirabilia: This is the Life, arcobaleno psichico sull'relatività dell'Essere". Feed the illusion you dream about, Cast out the monsters inside": fulgide trame sonore nel pentagramma del verbo a sei corde. This is the life we belong, a gift divine.

Divinità che almeno in una forma cripto-pagana erompe in tutto il suo misticismo nel brano successivo; una quiescente linearità di un nitido canto gregoriano viene successivamente dipinta da un tanto suadente quanto nervoso riff di Petrucci. Lo sfondo sonoro gioca fugace su ritmiche violente dove il nuovo arrivato pare libero di esprimersi con il giusto tiro adottando una mirata violenza emotiva. Disincanto ricercato all'unisono con il sempreverde LaBrie che, alfiere di una inaspettata minacciosità vocale, si erige cantore di un'elegia sonora pari a quella dell'ignaro amante che sfida prevaricandolo il plotone di esecuzione emotivo sfilatogli dall'inconsapevole connubio della sua amata. Neo sonoro in questo mare la leziosità dei soli, capaci di rifluire in un ritornello pari a quello iniziale, prevedibili tuttavia nella propria suggestione hollywodiaana.

Coreografie sonore che nella loro empirea bellezza dagli oscuri tratti orientaleggianti proseguono nel brano successivo, Outcry, nonostante il difficile metabolismo di base. Ma è affare prevedibile la litania del gradimento: quando la linearità artistica convince nonostante l'apparente complessità dei propri autori, allora l'iperbole tecnica altro non è se non un fungibile accessorio della gloria.

Empireo che, dissolto il mediano intermezzo pianistico di La Brie, sfocia in tutta la propria controversa bellezza nel Leviatano di questo ADTOE: "Breaking all illusions" multiforme sineddoche sonora costellata da meraviglie espressive introdotte da un perfetto stile neoclassico. Qui i Nostri compendiano, portandola avanti, una perfetta sintesi di tutto quanto il vocabolario del Prog abbia scritto nell'ultimo quarantennio; si tratta di un fibrillante leitmotiv dai tratti epici dove armonie sonore concedono perfezione alla dialettica del già detto. Dirigendo magistralmente il binomio tecnica-emozioni, qui manco ci fosse bisogno di ribadirlo, deus ex macchina è la mano incantata di Petrucci che quale Gilmour e Randy Rhoads di Diary of a Madman Post Litteram, imprime ai propri assoli ed in particolare a quello finale l'incommensurabile armonia della riproducibilità cantata. Ad Maiora...?

E così questo nuovo orizzonte sonoro, come l'onirico congedo di una scenografia indimenticata, si eclissa nella penombra di una dolce litania acustica dove inaspettatamente il protagonismo musicale viene concesso al bellissimo assolo di quello che può considerarsi coattore occulto di questo lavoro; Jordan Rudess.

In conclusione solo l'estro riduttivo potrebbe vedere in questo disco il lavoro della rinascita. In realtà le trame sonore che ne costellano i solchi dicono quanto un semplice adattamento possieda quelle doti magiche di rivitalizzare la linearità del già accaduto.

Perché infondo un domani che si illude altro non fa che disilludere i giorni che non vede..e questo sia Petrucci che Portnoy ben lo sanno.

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