Lo stop ai concerti ha portato in studio anche i Dream Theater e a detta di molti lo stop ha fatto bene. “A View from the Top of the World”, quindicesimo lavoro dei maestri del progressive metal, ha sorprendentemente incontrato i favori anche dei più criticoni della band, è forse il loro lavoro più apprezzato da diverso tempo. Cercherò di spiegarne il perché e di farlo in maniera piuttosto imparziale.
Il presupposto di partenza è uno: è un disco di vero progressive metal, è un disco che suona Dream Theater fino in fondo, e a quanto pare questo è quel che vuole il dreamtheateriano di una certa esigenza; non è mica da ieri che mi sono accorto di questo, seguo i Dream Theater ormai da più di 15 anni e non ho potuto non notare che la band riceve critiche a manetta ogni volta che tenta una strada diversa dalla propria.
Un disco dove si compie appieno l’equilibrio fra aggressività, virtuosismo e melodia, proprio il connubio su cui il progressive metal si fonda. In tempi recenti questo equilibrio era stato raggiunto anche in “A Dramatic Turn of Events” - non è un caso se anche quel disco riscosse un solido consenso - lì però aleggiava quel senso di autocitazionismo e di palese somiglianza strutturale con “Images and Words” che non riuscì a sfuggire alle nostre orecchie e che finì per macchiare (seppur di poco) tutto il divertimento. Anche nel lavoro del 2019 “Distance Over Time” si avvertiva una certa sensazione di equilibrio, lì però la band aveva cercato di essere più concisa e più tagliente.
La band qui torna alla formula a lei più consona: dopo tre album in cui prevaleva la medio-breve durata si torna a privilegiare i brani lunghi. Pochi brani (solo 7) ma belli lunghi, la formula progressive per eccellenza. Non c’è da nascondere che la band dà il meglio di sé proprio quando si affida alla lunga durata, perché questi cinque musicisti sono un incontro di così tante idee che è difficile condensare tutto in pochi minuti. In tutto questo poi, l’accento viene posto più che mai sulla componente progressive, in primo piano rispetto a quella metal. Il dilemma fondamentale del dibatto sui Dream Theater è… “sono una band progressive con una forte componente metal o una band metal con una forte componente progressive?” Se riguardo agli anni ’90 la risposta era senza dubbio la prima il nuovo millennio crea dei dubbi, in alcune occasioni i Dream Theater hanno effettivamente giocato a fare i metallari cazzuti, con picchi in album quali “Train of Thought”, buona parte di “Black Clouds and Silver Linings” e “Systematic Chaos”, facendo storcere il naso a diversi fan. In questo lavoro invece il metal è presente in maniera regolare senza mai voler prevalere, si inserisce nel reticolato strumentale, si confonde in esso, quasi non ci si accorge di essere davanti ad un gruppo metal eppure il metal è lì tranquillamente sotto le nostre orecchie. Nemmeno nei brani più esplicitamente tirati quali “Answering the Call” o “Awaken the Master” i cinque si atteggiano a metallari rudi, non sono brani che calzerebbero a pennello in “Train of Thought”. In sostanza è quello che succedeva nei capolavori degli anni ’90, metal sì ma nella misura più giusta, metal a servizio delle composizioni e non fulcro delle stesse. Se siete metallari puri e crudi non è esattamente ciò che fa per voi, non incaponitevi a trovare la parte da headbanging selvaggio perché rimarrete delusi.
Ma il vero punto di forza, quello che fa gridare al capolavoro come ai vecchi tempi, è un altro: la fluidità. I brani scorrono davvero che è una meraviglia, i singoli segmenti strumentali si susseguono e si incastrano con una naturalezza che fa davvero paura, ogni piccolo tassello sembra davvero lì al proprio posto e dà davvero l’impressione di essere la giusta controparte del precedente; tutto avviene al momento giusto, non si avverte mai un senso di forzatura, di costrizione, di parte inserita a forza; persino gli assoli, la cosa più facile da appiccicare ovunque senza criterio (come accadeva ad esempio in molte occasioni in “Black Clouds and Silver Linings”), arrivano nel momento giusto e seguono la trama; in pratica è come se i brani si fossero scritti da soli e come se le parti si fossero assemblate da sole senza l’aiuto di nessuno. Allo stesso modo non c’è praticamente nulla che venga tirato per le lunghe, i Dream Theater stavolta sanno quand’è il momento di troncare. Diverse volte in passato hanno dato l’impressione di aver allungato troppo il brodo, di aver gonfiato inutilmente alcuni brani, pensiamo ad esempio alle sezioni finali eccessivamente lunghe e ripetitive di “Finally Free”, “In the Name of God”, “Repentance”, “The Count of Tuscany”. Altre volte invece capitavano parti che sembravano forzate, che avevano poco a che vedere con il resto del brano, pensiamo alle sezioni strumentali di “The Ministry of Lost Souls” o “A Rite of Passage”. Non succede nulla di tutto questo qui.
Nel suo classicismo di album progressive metal non mancano tuttavia elementi che procurano un certo interesse, li analizzeremo traccia per traccia ma uno su tutti è il ricorso a diversi inserti orchestrali, di tanto in tanto si interviene con aperture poderose e sgargianti che non sono poi così tanto usuali per i Dream Theater. In un certo senso si potrebbe dire che non hanno abbandonato del tutto le soluzioni di “The Astonishing”, mi dispiace ancora che non abbiano proseguito quel discorso ma almeno hanno cercato di salvarne alcune idee. Nulla comunque di veramente rivoluzionario, ho più volte detto che non sono i Dream Theater la band che fa evolvere il genere oggi e pertanto guai a farsi illusioni.
Caratteristica curiosa e alquanto insolita è la totale assenza di ballad o simil-ballad, cosa che finora era successa soltanto una volta nel primo storico album del 1989. A dire il vero nemmeno “Systematic Chaos” e l’omonimo “Dream Theater” avevano la ballad vera e propria ma avevano comunque il brano lento e rilassato, qui nemmeno quello. Sarà che dopo “The Astonishing” ne avranno abbastanza? Sarà la paura di sprofondare nello sdolcinato? Effettivamente l’unica ballad del precedente album era abbastanza insipida e se ne saranno resi conto, sta di fatto che questo permette alla band di concentrarsi appieno sul proprio stile, di approfondirlo al meglio; ridendo e scherzando siamo di fronte al disco più puramente prog-metal della loro discografia; solo un brano (più soft del normale) vi si scosta quel tanto che basta, in passato i brani che esulavano dallo stile erano anche di più.
E poi c’è da spendere due parole anche su alcuni singoli. Il batterista Mike Mangini, protagonista di un gran processo di crescita personale, offre la sua miglior prestazione, ricca di dinamismo fulminante e soluzioni ritmiche a sorpresa, più passa il tempo e più rimpiangere Portnoy diventa inopportuno e fuori luogo. Stavolta però a sorprendere è addirittura il membro più controverso della band, James LaBrie: da anni se ne recita il necrologio, si parla di cantante ormai alla frutta che continua a perseverare, si prega persino che qualcuno lo fermi… invece qui anche lui fa la sua parte, tira fuori la grinta, modula la voce oscillando fra l’apertura melodica e il ruggito più aggressivo; non sarà più il LaBrie di un tempo ma si ricorda di avere una versatilità.
Ma vediamo cosa ci riserva l’album traccia per traccia, per capirci meglio. La prima traccia “The Alien” è semplicemente quella che meglio esemplifica il concetto di scorrevolezza, appare azzeccata la scelta di presentarlo come primo singolo: è impressionante il dinamismo, i riff di chitarra e basso vanno da tutte le parti, Mangini è imprevedibile e caotico, stravolge i pattern nel giro di un secondo, tutto però con un ordine incredibile e dettato da una perfetta logica, è il brano vortice per eccellenza.
“Answering the Call” è il brano più heavy ma non si prefigge di essere il brano tamarro di turno, anzi ha idee stuzzicanti ed ha anche un sound particolare: si distingue per un’atmosfera da film di fantascienza, ci sono effetti simili ad elicotteri e computer di bordo, come anche aperture orchestrali di rilievo.
“Invisible Monster” è il brano commerciale dell’album, si fa per dire, quel brano heavy e più diretto che si trova in quasi tutti i dischi. A dire il vero nemmeno così heavy, non pesta così tanto come vorrebbe, il metallaro incallito storcerebbe il naso, è strutturalmente simile a “Pull Me Under” e un po’ anche a “A Rite of Passage” ma non ne ricalca la potenza, non lascia lo stesso segno; credo sia doveroso riconoscere che si tratta del brano meno entusiasmante dell’album, è proprio il brano accattone per eccellenza, che sacrifica la solidità musicale in favore della facile fruizione, ha praticamente la logica di un brano pop pur non essendolo.
“Sleeping Giant” però riporta il tutto su alti ranghi con ancora idee molto cool. Suoni con atmosfere gotiche, riff di chitarra ampi e graffianti con una cattiveria metal ma con un retrogusto hard rock che li smorza, martellate di organo distorto al limite del rumoroso, fiammate orchestrali e quant’altro.
“Transcending Time” è un altro di quegli sporadici tentativi da parte dei Dream Theater di fare spudoratamente i Rush, sarebbe calzato a pennello nell’album self-titled del 2013. È in ogni caso l’episodio più melodico dell’album, l’episodio più lontano dal metal che non manca mai in ciascun lavoro. I riff sanno più di hard rock melodico, compaiono anche dei tocchi acustici; Jordan Rudess riscopre il proprio lato più elegante nelle parti di piano e quando piazza i passaggi di synth lo fa percorrendo bene la propria tastiera alla ricerca di una melodia di ampio respiro.
L’innovazione più significativa però è quella che riguarda “Awaken the Master”: John Petrucci per la prima volta utilizza una chitarra a 8 corde; una foto del nuovo modello era spuntata già dalle sessioni di “Distance Over Time” ma poi non trovò collocazione in nessuna traccia dell’album, ecco che invece ora Petrucci si è deciso ad inaugurarla. Ho adorato il suo sound affilatissimo grazie all’utilizzo che ne fanno gli Haken ed ero curiosissimo di vedere che resa potesse avere su un brano dei Dream Theater. Il risultato è senz’altro stupefacente, i riff sono delle vere e proprie lame e trascinano l’ascoltatore in un vortice travolgente, e lo fanno senza sfociare nel metal estremo, cosa molto facile con una 8 corde; invece viene lasciato molto spazio alle aperture classiche e sinfoniche, talvolta cinematografiche, interessante anche la linea di basso al limite del funk nella seconda strofa.
E poi c’è la suite che dà il titolo all’album, paragonabile a “The Odyssey” dei Symphony X per il suo impatto hollywoodiano o a “Visions” degli Haken dal punto di vista strutturale. E anch’essa è un pozzo di tante belle cose, anche insolite. La parte iniziale, con suoni di archi, ottoni e perfino arpe, è praticamente una musica d’entrata per un colossal cinematografico, un livello di teatralità raramente appartenuto alla band; sorprende anche la parte finale, con riff duri su una parte lenta, una soluzione che quasi si avvicina al doom ma senza lambire quel tipo di sound oscuro; in mezzo ci sono cavalcate al limite del power metal, una sezione di basso metallico potente, una lunga parte lenta e rilassata, le solite fantasie di Rudess e quant’altro.
E quindi? Qual è la morale di tutto ciò? I Dream Theater hanno saputo restare aggrappati al loro classicismo rimodellandolo in maniera intelligente, credo che sia questa la chiave del successo.
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