Per una band che da circa 12 anni divide puntualmente i propri fan per via dell’eccessiva tecnica e pomposità e che addirittura viene bollata da svariate persone come “una formazione che da anni continua a proliferare album con regolare cadenza biennale senza tuttavia avere idee nuove” annunciare un doppio concept album è estremamente rischioso. Tuttavia in realtà si è poi visto che la maggior parte dei fan si è mostrata fiduciosa, vedendo nel concept album come una possibilità di produrre finalmente qualcosa di concreto dopo anni di riciclo ed anonimato.

E così ecco che ci troviamo a parlare dell’opera più ambiziosa dei Dream Theater, “The Astonishing”, basata sullo scontro fra il Great Northern Empire guidato dall’imperatore Nafaryus, che vuole controllare e sottomettere la popolazione, e la Ravenskill Rebel Militia, della città appunto di Ravenskill, che vuole ribellarsi all’impero. Una storia analoga a quella raccontata nella celeberrima suite “2112” dei Rush. Sembra che l’argomento “controllo e manipolazione” delle popolazioni sia abbastanza in voga attualmente nel mondo. Basti pensare che l’anno scorso i Muse l’hanno trattato nell’album “Drones”. Probabilmente, grazie alla crisi mondiale forse creata dai potenti proprio per sottomettere la popolazione a proprio vantaggio (chissà qual è la verità…), grazie alla meritocrazia messa in discussione dal music business, il sempre più crescente impiego dei droni per il controllo e quant’altro si sta rivalutando l’idea (grazie anche a pagine Facebook e dibattiti televisivi appositi) di una popolazione non libera di pensare e che viene continuamente condizionata da chi vuole arricchirsi alle sue spalle…

Ma passiamo a parlare dell’aspetto più importante di un album, ovvero quello musicale. Nel 2016 i Dream Theater si riscoprono meravigliosamente sinfonici. In “The Astonishing” la melodia prevale su tutto il resto, pochi i brani metal e poco lo spazio concesso al virtuosismo, quel virtuosismo che tanto avrà stancato chissà quanti fan, via i brani lunghi (il più lungo supera i 7 minuti ma non si toccano mai gli 8), qui prevalgono le ballate e comunque i brani tendenzialmente soft; i Dream Theater decidono di avvalersi di un’orchestra ed alcuni gruppi corali per buttarsi a capofitto sulla musica sinfonica ed orchestrale. “Rock sinfonico” è sicuramente l’espressione più appropriata da affibbiare al sound complessivo dell’album. Alcune incursioni nel symphonic erano già state tentate in passato: si pensi alla suite “Six Degrees of Inner Turbulence” dove l’intro e le varie parti erano però state riprodotte dalle tastiere di Rudess, all’utilizzo di una vera orchestra già in brani come “Sacrificed Sons” e nella sezione finale di “Octavarium” e all’ensemble d’archi utilizzato nel precedente album in “False Awakening Suite” e nella parte centrale di “Illumination Theory”; ora invece la band vuole approfondire questo lato come mai prima d’ora. Le overture dei due dischi ne sono gli esempi più lampanti. Ma pure a livello di singoli strumentisti sembra chiara l’intenzione di puntare a qualcosa di più soft: Jordan Rudess non vuole esagerare nell’usare i suoi tanto odiati effettini e i suoi virtuosismi e predilige una vena più pianistica, così come John Petrucci suona con un approccio nettamente più rock che metal e aumenta gli inserti acustici. Il risultato è un disco che non ha eguali nella discografia del gruppo e quindi dopo tanti anni dà seriamente nuova linfa al sound della band.

Ma questa più che mai rinforzata vena sinfonica non è la sola a rinfrescare la proposta del gruppo; sparse nell’album vi si trovano infatti numerose cosine che non sono certo consuetudinarie nel Dream Theater sound. Subito in mente mi viene lo swing-metal di brani come “Lord Nafaryus” e “Three Days”, con arrangiamenti che potrebbero richiamare la Diablo Swing Orchestra (soprattutto la coda finale della seconda) e alcune cose fatte dagli A.C.T; nella prima vi è pure un breve frammento in stile tango. Particolare anche la marcia imperiale che introduce “Brother, Can You Hear Me?”. “A Life Left Behind” invece colpisce per quella sua fuga acustica molto in stile Yes (mi ha ricordato parecchio “Tempus Fugit”), prima che il brano prenda la piega di una dignitosa ballad. Piuttosto inusuale per i Dream Theater anche la parte iniziale di “Ravenskill” con quel piano delicatissimo e quella voce altrettanto soffice che potrebbe ricordare perfino i Sylvan e quell’effetto di ruscello che scorre che ancora una volta rimanda ai Rush di “2112” o di “Natural Science” (peccato che il brano poi si perda un po’). Tutti poi a dir la verità siamo un pochino balzati dalla sedia quando abbiamo sentito la cornamusa finale di “The X Aspect”. E potrei aggiungerne altri… e lo faccio! Ad esempio l’inserto di mellotron in “The Road to Revolution” che rimanda direttamente al proto-prog di fine ’60; ma anche quel suono di piano elettrico vagamente anni ’80 che accompagna elegantemente “Losing Faythe”; e che dire di “Hymn of a Thousand Voices”, un brano dal sapore folk-celtico che nessuno si sarebbe mai aspettato dai Dream Theater. Il brano più indecifrabile e proprio per questo affascinante è però “Our New World”: “un brano di rock vivace ed inclassificabile”, così lo definirei! Vivace perché ha una carica unica ed una melodia brillante ed “estiva”, sembra quasi il tipico brano da cabrio e braccio fuori, inclassificabile perché davvero non si riesce a dargli una precisa etichetta, non è metal, non è hard rock, non è indie, non è alternative, non è grunge… come classificarlo? Il fascino dell’inclassificabile e del misterioso alla massima potenza!

Non dobbiamo poi scordarci delle brevi strumentali che rappresentano i Nomacs, le macchine destinate al controllo della popolazione; brevi intermezzi elettronici-computerizzati che testimoniano ulteriormente la voglia di rinnovamento del gruppo.

Tuttavia vi è anche una piccola manciata di brani nel più classico stile progressive metal dreamtheateriano, dove la componente metal torna prepotente così come gli sprazzi di virtuosismo: “Moment of Betrayal” ne è l’esempio più lampante, poi c’è “The Path That Divides” che con i suoi accompagnamenti d’organo distorto ricalca parecchio il sound tagliente e oscuro di “Awake”.

I difetti in ogni caso non mancano, è anche normale in un album composto da ben 34 tracce; qualche brano riempitivo che sembra non avere granché da dire c’è (“A Better Life”, “A Savior in the Square” e “A Tempting Offer”) e alcune soluzioni sembrano ripetute un po’ troppo all’infinito (quei ritornelli potenti e corali dal sapore epic alla lunga stancano) mentre altre più geniali meritavano di essere approfondite (il solito vizio di osare con il freno a mano un tantino tirato, fortuna che qui di idee particolari ce ne sono un bel po’). Delude poi anche la prestazione di John Myung, che dopo la notevole prestazione offerta in “Dream Theater” si fa sentire davvero poco e si limita ad un blando accompagnamento; ottima ancora una volta la prestazione del batterista Mike Mangini, che ancora una volta offre interessanti colpi a sorpresa, così come anche quella del tanto vituperato James LaBrie, la cui prestazione vocale si rivela invece variegata, funzionale ed efficace. Possiamo in ogni caso tranquillamente dire che di aver rischiato ne è valsa davvero la pena.

La sentenza dice che ci troviamo di fronte al disco più fresco ed ispirato addirittura dai tempi di “Six Degrees of Inner Turbulence”. Nonostante il mio fanboyismo nei confronti dei Dream Theater quando ho potuto ho cercato di essere anche obiettivo; ho infatti spesso ammesso che la band ha mostrato una grande volontà di reinventarsi e presentarsi con una faccia sempre nuova fino a “Train of Thought” compreso e che dopo invece ha avuto una certa tendenza al riciclo; ma allo stesso tempo non nascondo che secondo me qualcosa di nuovo ed interessante anche nei dischi successivi c’è stato e che comunque hanno mantenuto la tendenza a cambiare approccio ad ogni album.

In ogni caso se in questi ultimi dieci anni ho capito in qualche modo le critiche ai Dream Theater (pur non condividendole appieno) non credo che riuscirò a capire quelle verso questo album. Volevate meno virtuosismo? Ottenuto! Volevate più melodia? Eccola! Volevate meno influenze heavy estreme? Debellate! E soprattutto volevate idee nuove? Ventata di freschezza? Eccone un bel po’. Tutti gli elementi d’accusa sono decaduti, cosa volevate di più?

Mi dispiace cari vecchi detrattori ma penso che se veramente non riuscite nemmeno un po’ ad apprezzare questo lavoro e a trovargli un senso e se veramente lo considerate l’ennesimo lavoro deludente dobbiate seriamente prendere in considerazione l’ipotesi di avere un’idiosincrasia nei confronti dei Dream Theater.

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