Nel 1983, il mondo dell’hardcore fu scosso da un terremoto di proporzioni inaudite. Con il loro disco d’esordio, “Dirty Rotten”, i californiani D.R.I. fecero letteralmente il vuoto dietro di loro in ambito estremo. Non si era mai sentito nulla di così veloce, potente, violento, sgolato, conciso, isterico, devastante: 22 brani stipati in soli 15 minuti di musica, 22 uragani sonori che all’epoca fecero sembrare i Circle Jerks un innocuo e retrivo gruppo garage-rock e che ancora oggi, a 23 anni di distanza, sono capaci di sconvolgere. Il 1983, è bene ricordarlo, fu anche l’anno della nascita del thrash metal, con gli esordi di Metallica e Slayer. Questa nuova forma di metal che prese piede in quell’epoca nella Bay Area, ma anche a New York (vedi Anthrax), paga un tributo palese all’opera dei D.R.I., così come il grindcore britannico di qualche anno dopo (quello dei Napalm Death). Per farla breve, i D.R.I. hanno creato la forma hardcore “definitiva”, dal punto di vista dell’oltranzismo sonoro, finendo per influenzare anche un genere fino a quel momento antitetico all’hardcore come il metal. Va detto, a onor del vero, che i D.R.I. non furono gli unici a innovare il genere in quella direzione: il biennio 82/83 segnò i fondamentali esordi dei grandissimi Bad Brains, dei Suicidal Tendencies, degli Agnostic Front, tutte band per opera delle quali i due mondi dell’hardcore e del metal si sono per la prima volta abbracciati. Ma “Dirty Rotten” si candida come il disco in cui l’invenzione di questa sorta di hardcore-metal si configura come sistematica, programmatica, guidata da una lucidità e da una chiarezza di intenti che ne fà un manifesto, una pietra miliare. Nell’analisi che segue, verranno tenuti in considerazione anche i sei brani dell’E.P. “Violent Pacification” (1984), inseriti in una recente riedizione di “Dirty Rotten”.
I D.R.I. furono una band significativa non solo per lo stile, ma anche per i contenuti: nelle loro liriche passano in rassegna tematiche serie come la guerra, il capitalismo, l’economia reaganiana, i rapporti degli adolescenti con la famiglia, la scuola, la società in generale. A veicolare l’espressione di queste profonde problematiche, troviamo brani basati su progressioni forsennate, costruzioni talora intricate (nonostante la maggior parte dei brani non arrivi al minuto di durata), una sezione ritmica potentissima, capace di accelerazioni al cardiopalma e cambi di tempo fulminanti, una chitarra (Spike Cassidy) feroce, abrasiva, ma altresì eclettica e dedita a dissonanze, deragliamenti, assoli free-form di scuola Gregg Ginn (i Black Flag non saranno mai troppo lodati per la loro lungimiranza!), e una voce (Kurt Brecht) sgolatissima, convulsa, scorata, ma oltremodo emozionante e comunicativa. I primi due brani dicono già molte cose a proposito. L’opener “I don’t need society” è uno dei vertici del disco: entrano nell’ordine batteria, basso, chitarra, poi l’urlo catartico di Brecht, la tensione esplode e veniamo proiettati in un tunnel a velocità supersonica. E’ un brano che mette la pelle d’oca. La successiva “Commuter Man” vanta ben due cambi di tempo nei suoi 40 secondi di durata: parte cadenzata (alla Stooges), poi sparata (alla Germs), infine imprendibile (alla D.R.I.!). Con “Running Around”, “Violent Pacification”, “The Explorer” e soprattutto “Couch Slouch” (altro capolavoro), i D.R.I. giungono alla perfetta formalizzazione del loro stile, tra rallentamenti e deflagrazioni, mentre la folle “No sense” e la demenziale “Who am I” rappresentano il versante più buffonesco di questa band, quello che poi avrebbe influenzato la proposta dissacrante di band come i S.O.D..
Nonostante ad un primo ascolto, questi 28 brani possano dare l’idea di essere “tutti uguali”, il loro fascino sta proprio nel fatto che ciascuno di loro ha in sé una trovata, un espediente tecnico, un’idea, una peculiarità che lo rende prezioso e diverso dagli altri. E questo lo si deve alla sorprendente versatilità dei musicisti. Può così capitare che la batteria si faccia grottescamente zoppicante (“Dennis’s Problem”, “Busted”), che la chitarra si lanci in vertiginosi attacchi hendrixiani (l’isterica “Reaganomics”) o in arpeggi malinconici (l’incipit di “Blockhead”) o in assoli strascicati (il minaccioso intermezzo di “Sad to be”), che la voce passi con naturalezza dal registro declamatorio di “Balance of Terror” a quello parossistico di “Yes Ma’am”, dal tono ansioso di “Money Stinks” a quello affranto di “War Crimes”.
La cosa che mi preme sottolineare di questo disco è che, nonostante gli eccessi, il caos, la cacofonia che talora lo caratterizza, si ha sempre l’impressione di un qualcosa di sincero, sentito, umano, per nulla artificioso (come in certo thrash) e per nulla disumano (come in certo grind). Ascoltando “Dirty Rotten” si avverte quel senso di disagio, frustrazione, rabbia, impotenza di una generazione di adolescenti alle prese con situazioni quotidiani e dilemmi esistenziali così brucianti da sentire il bisogno di trasfigurarli musicalmente nel modo più intenso possibile. Ci sono riusciti.
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