I Drive Like Jehu erano un gruppo di San Diego, attivo nella prima metà degli anni 90, dedito ad un emo-core di pregevole fattura e titolare di soli due album. Questo “Yank Crime”, datato 1994, è il loro canto del cigno e, a detta di molti, il loro lavoro migliore. Guidati da Rick Fork e John Reis, i DLJ furono uno di quei gruppi americani che, negli anni 90, raccolsero l’eredità dei pionieri del post-hardcore (Rites of Spring, Squirrel Bait, Bitch Magnet) e la adattarono all’era del post-rock. La loro musica poggiava sui duetti spumeggianti delle due chitarre, su una sezione ritmica vulcanica ma estremamente precisa e sullo screaming del cantante: insomma, la quintessenza dell’emocore.

Il capolavoro si trova in apertura: “Here Come the Rome Plows” (degna dei Rites of Spring, solo giocata su sonorità meno “primaverili” e più oppressive) irrompe come vivido manifesto di tutta la loro estetica, con chitarre sature, corse a perdifiato, contrappunti dissonanti, piglio drammatico, armonie convulse, ritmiche concitate, barocchismo sfrenato; tutto perfettamente dosato per oltre 5 minuti di durata. Peccato che il resto del disco non sia sempre a questi livelli. Il succo dell’opera è infatti costituito da brani davvero troppo lunghi, troppo elaborati, troppo autocompiaciuti e, in definitiva, ripetitivi. Quello che manca ai ragazzi di San Diego è il senso della misura, quello che aveva reso grandi gli Squirrel Bait (puntualmente omaggiati nei refrain scorati di “Golden Brown” e “Super Inison”).
“Luau”, uno dei momenti chiave del disco, si attesta sui 9 minuti di durata e propone una cadenza ossessiva, ipnotica, con un geometrico intreccio di chitarre che richiama i Don Caballero, un canto dolente, straziato, acuito da un suggetivo gioco di sovrapposizioni vocali. “Do You Compute” invece viene introdotto da uno stridulo arpeggio di chitarra, che si incanala in una progressione minimalista memore della lezione di Terry Riley, per chiudere con una dimessa e criptica coda slintiana. E gli Slint (quelli di “Good Morning, Captain”) tornano puntualmente nell’elegia conclusiva, “Sinews”, che tenta invano di raggiungere i livelli di una “Americruiser” (Bitch Magnet) o di una “Trowser Minnow” (Rapemen) nella galleria delle pseudo-ballate piano-forte, poste sovente in chiusura di prestigiosi dischi (pre)-post-rock.

Il principale difetto di questo disco è la voglia di dimostrare a tutti i costi l’ampia gamma di soluzioni armoniche di cui dispone la band, che porta a concetrarsi più sulla forma che sulla sostanza. Pur coi suoi difetti, “Yank Crime” resta comunque un’opera interessante per capire gli sviluppi più o meno recenti di quel genere che un tempo si chiamava “hardcore”.

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