Non ne parlano male. Non ne parlano bene. In generale è stato accolto con indifferenza o, da parte dei fan del gruppo, un po' di delusione. Ad ogni modo non si può certo dire che l'ultimo dischello degli ucraini Drudkh abbia fatto gridare al miracolo, parlando per eufemismi. Qual è il problema quindi? Il problema è pressappoco lo stesso che si presenta ogni benedetta volta che qualcuno decide di cambiare rotta e proporre qualcosa di leggermente diverso dalla solita routine discografica: deve farsi il segno della croce perché incapperà nell'inevitabile disappunto di certa critica purista; sì, proprio lei, quella del "erano-meglio-i-primi-demo/album-perché-erano-più-trve/cvlt".

Ora, nel caso dei Drudkh mi capita ancora di leggere certi titoli rimpianti come "Autumn Aurora", "Forgotten Legends" o "Blood In Our Wells", e non a torto!, mi verrebbe da dire. Non è affatto semplice replicare ad oltranza la stessa ispirazione artistica col passare del tempo e degli album, e la cosa sembra quantomeno fisiologica anche per gli zelanti Drudkh, che nel giro di otto anni hanno sfornato altrettanti dischi: oltre ai suddetti capolavori, ci stanno anche dei discreti "The Swan Road" ed "Estrangement", un poco entusiasmante "Songs Of Grief And Solitude" (lavoro interamente acustico, sicuramente prescindibile) e infine il penultimo "Microcosmos", eccellente sintesi della loro carriera. Giunti a quel punto era davvero necessario, se non inevitabile, cambiare un po' di carte in tavola piuttosto che rimescolarle di nuovo, dato che molto probabilmente Roman Blagih (aka Thurios) e compari avevano ormai tirato fuori da quell'inconfondibile, raschiante black metal di stampo naturalistico tutto quello che c'era da dire, e forse anche oltre.

Entra quindi in gioco "Handful Of Stars" (2010), l'"alea iacta est" della situazione.

Con questo lavoro i Drudkh abbandonano definitivamente i lidi black metal, fino a quel momento esplorati con dedizione e tanta personalità, per aderire ad una certa tendenza che ha ormai preso piede nel metal estremo degli ultimi tempi: quella cioè d'imbastardire il (post-)black d'ultima generazione con sprazzi di post-rock, shoegaze e monnezza varia che apprezzo assai. Anche volendo esagerare, la cosa è intuibile persino a partire dall'artwork dell'album, diverso dai soliti cupi e desolati paesaggi boschivi, stavolta a cura del buon Fursy Teyssier, lo stesso autore degli incantevoli artwork di Alcest, Lantlôs, Amesoeurs, Miserere Luminis e, ovviamente, del suo personale progetto Les Discrets; insomma proprio quella famigerata cricca di svitati a cui pare si siano aggiunti gli stessi Drudkh! Personalmente, da un gruppo chiuso e intransigente come loro, non me lo sarei mai aspettato. Ma nel bene o nel male c'è sempre una prima volta e in questo caso, a parere di chi scrive, si può decisamente parlare di bene.

È davvero curioso (per non dire strano) sentire i Drudkh in questa nuova veste: pur avendo sacrificato un po' della loro unicità, ovvia conseguenza per chi decide di seguire una "moda", non si può comunque negare che i nostri siano riusciti a creare qualcosa di veramente particolare. "Handful Of Stars" è essenzialmente un disco monocromatico (un po' come la copertina), lineare, privo di sfumature, e si avvale soprattutto di una produzione straordinariamente nitida e cristallina come mai l'avevamo sentita dai principi del black metal slavo -basta fare un confronto con "Forgotten Legends" o anche il più recente "Microcosmos" per notare le enormi differenze! Il tutto è corroborato dalla durata dei quattro brani (escludendo intro + outro) che si aggira in media sui dieci minuti: non c'è quindi da stupirsi molto se un po' tutti l'hanno trovato semplicemente noioso e prolisso; ma proprio in merito a questa "noia" vorrei spendere qualche riga.

"Handful Of Stars" non brilla per la tipica aggressività primordiale del black (di cui ora, come già detto, non vi è più traccia), nè per la tecnica, e tanto meno gioca su possibili sfumature o variazioni sul tema per ingraziarsi l'ascoltatore. Per tutta la durata di questi 40 minuti avremo a che fare con un ipnotico flusso di riffs distaccati e spesso vaporosi, accompagnati da una sezione ritmica pacata, mai sopra le righe, un basso stranamente pronunciato e un tonante scream ad opera di Thurios, che ora non suona più come il riecheggiante e lontano urlo disumano dei lavori scorsi, bensì si fa distinto e stagliato. Come già detto, le variazioni sono poche e di certo non è la dinamicità il punto forte del disco: basta sentire il brano d'apertura "Downfall Of The Epoch" per farsi cullare dai suoi arpeggi ondulati e addirittura rilassati, protratti per tutta la modica durata di 12 minuti! 12 minuti che però, per qualche motivo, finiscono troppo presto. Ciò che mi spinge a considerare questo disco speciale è in primo luogo la sua capacità di essere incredibilmente monocorde, uniforme, e allo stesso tempo così ammaliante e trasognato da non far pesare affatto la propria immobilità.

Così "Twilight Aureole", pur non essendo un episodio eccezionale, col suo dolce e malinconico scampanellio di chitarre sa come stamparsi bene nella memoria durante i suoi 9 minuti, per poi concludersi in un caotico sferragliare che lascia l'ascoltatore con un misto di perplessità e inspiegabile sospensione. Di tutt'altro livello è l'ultima, splendida "The Day Will Come", brano talmente lineare che pare smaterializzarsi nella propria trasparenza sonora; sicuramente racchiude al meglio le idee (anzi, sarebbe più appropriato dire la sola idea) di "Handful Of Stars", zeppo com'è di quell'atmosfera indecifrabile, sempre in bilico tra rabbia sognante e stasi distaccata, che aleggia in ogni singolo minuto di questo viaggio lunare. Ma la mia preferita resta comunque "Towards The Light", forse per via dell'insolito pathos che riesce a trasmettere: i Drudkh si/ci concedono l'unico vero richiamo al black metal con una cascata di blast beats appassionati, lasciando comunque spazio a ricami chitarristici più atmosferici e quasi "psichedelici", per non parlare del misterioso stacco in clean che irrompe a metà brano, per quel che mi riguarda il momento più immaginifico ed affascinante del lotto!

Ok, quindi il mondo è bello perché (a)vari(at)o, e sinceramente non è la prima volta che vedo un album dei Drudkh subire uno snobbamento (si dice così? vabbè fottesega) del genere. Dal canto mio, visto che vado matto per le contaminazioni del BM negli ultimi anni e in più gradisco parecchio i dischi di transizione, non posso fare a meno di apprezzare chi cerca di offrire un piatto diverso dal solito minestrone riscaldato; ben vengano quindi dischi prolissi e noiosi sugli stessi livelli di "Handful Of Stars", che non sarà certo un nuovo "Autumn Aurora" (e chi ha detto che ne vogliamo un altro?), ma sa farsi valere per quello che è. Ora non resta che scoprire se di fatto questa transizione intende davvero portare a qualcosa di più mirato e definito, oppure se si è trattata solo di una parentesi semi-sperimentale slegata dalla produzione 'drudkhiana'. In tutta franchezza, avrei ben più timore per la seconda ipotesi...

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