Aria mossa dal suono di note ancestrali. Atmosfera onirica. Pochi secondi per contemplarla, pochi secondi per distruggerla. La pace si spezza, annientata da un vento gelido, da chitarre e batteria che sembrano produrre una tormenta di neve al posto delle note. Un riff come solo LORO potevano scriverlo. Estasi, contemplazione mistica. Se si possiede un animo capace di conciliarsi con tale musica, è impossibile tornare indietro. Anche solo impensabile tentare di premere il tasto pausa del lettore per interrompere la canzone, perché quella che scorre non è una canzone, ma una bufera, una tempesta emotiva che distrugge ogni freno lungo il cammino. Tentare di fermarla è come proteggersi da una valanga usando le mani. Ma quando ormai siamo entrati nel mood, immersi fino al collo nella neve, le chitarre disegnano quadri ad olio sulle nostre sensazioni più arcane, riflessioni chitarristiche, un assolo su una base annichilente che si trattiene poi in arpeggi meditativi e intimistici. Impossibile anche solo tentare di ascoltarlo con giudizio, sarebbe come cercare di trovare un difetto nella ragazza di cui ci si è appena innamorati alla follia.
In origine furono "Autumn Aurora" e "Forgotten Legends". Poi la desolazione totalizzante di "Blood In Our Wells" e (ma solo in parte) di "Estrangement". Ora siamo qui ad ascoltarli ancora, e la cosa che più stupisce è la totale mancanza di qualsiasi caduta di tono. Neppure mezza, neppure piccola, neppure accennata. Nulla. Se "Estrangement" vi aveva deluso, dimenticatelo. Se alcune forzature stilistiche ed atmosferiche dei dischi precedenti vi avevano lasciato un tantino perplessi, lasciatele alle spalle. Se prima rimanevo straordinariamente colpito da alcune canzoni, se non da alcuni singoli riff, ora è l'intero album ad essere un blocco di pietra irremovibile che si auto-scolpisce nel cuore per poi frantumarsi al contatto con l'anima e scorrere come sangue nelle vene più veloce del vento in una burrasca.
I Drudkh sono rinati.
Non potevo aspettarmi di meglio dal loro nuovo album. Credevo che con i dischi precedenti avessero già detto tutto. "Impossibile che mi facciano rivivere le emozioni di Autumn Aurora e Blood In Our Wells..." dicevo a me stesso. Mi aspettavo un nuovo mezzo passo falso, come lo fu "Estrangement" nel 2007. E ora mi ritrovo qui a dire che "Microcosmos" è diventato, probabilmente, il mio album preferito della loro discografia, e a chiedere perdono a capo chino. Ogni loro caratteristica qui è amplificata all'estremo annientando ogni punto debole, come se avessero preso i suoni più moderni di "Estrangement" immergendoli nel mood nichilista di "Blood In Our Wells", con la drammaticità di "Anti-Urban" e i riff arcani e mistici di "Autumn Aurora" e "Forgotten Legends", ridimensionandone però totalmente le atmosfere.
Indubbiamente si tratta del loro album più crudo, più diretto e, forse, più sentito. Non per nulla il clima quasi ambient dei primi dischi è ridotto all'osso: qui è il suono gelido delle chitarre a prevalere. Come un'ipnosi da cui è impossibile svegliarsi, colpiscono al cuore senza alcuna pausa, lasciando pochissimo spazio all'evasione. Non c'è tempo per riposare la mente in divagazioni naturalistiche, qui siamo continuamente bombardati da emozioni, sempre sotto il tiro del fiume in piena, martellante quanto sublime. Una summa della loro concezione della musica e, forse, anche della vita. Sembra di viverle, queste note, piuttosto che ascoltarle. Scavano dentro e non lasciano spazio alla fuga. Impossibile difendersi. Allucinante.
Questo non è un album che può essere ascoltato in modo normale. Occorre la mentalità, la predisposizione, il momento giusto, e ancor più lo stato d'animo giusto. Ancor prima di infilare le cuffie occorre essere una porta aperta che dichiara ai Drudkh "Si, ora sono libero, senza difese, senza costrizioni concettuali, senza pregiudizi. Non voglio altro se non vivere l'emozione. Entrate, e fate di me quel che volete". Loro entrano. E fanno di noi quel che vogliono (ovvero, ci annichiliscono emotivamente, se non spiritualmente).
Le canzoni scorrono e, per la prima volta nella loro discografia, non vale la pena farne una distinzione. "Decadence" non sarebbe la stessa senza "Distant Cries Of Crane". Ogni canzone è un pezzo del puzzle, come un unico viaggio, dove la prima parte del disco scorre lenta ed inesorabile come un bulldozer sull'anima e la seconda parte finisce il lavoro, velocizzando i tempi di batteria con "Ars Poetica" che rallenta a metà canzone per spezzare la tensione accumulata, per poi districarsi tra una voce struggente nel suo immedesimarsi in un malessere che diventa poesia, e riff che sanno di muschio, che derivano direttamente dalle foreste più arcane. E tutto infine si riversa in una canzone come "Everything Unsaid Before" che altri non è che la quadratura del cerchio, persa nelle sue contraddizioni tra furore passionale e contemplazione intimistica.
Puro panteismo musicale, dove gli dei della foresta diventano un tutt'uno con l'anima, una cosa sola, la natura e l'uomo, e tutto questo attraverso pure e semplici note. Sembrano solo sterili e ampollose parole, ma acquistano valore quando si entra nello spirito del disco e si coglie l'essenza.
Il pentagramma altri non è che uno strumento per arrivare a toccare l'anima; i Drudkh questo l'hanno capito fin troppo bene.
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