“…la morte è un angelo che ci trasporta dal mondo oscuro al mondo luminoso. Io, ogni sera, avvolta nell’ombra, guardo il cielo e vedo luccicare le stelle. So che un giorno navigherò felice in mezzo a loro”.
(Alejandro Jodorowsky, “Loïe del cielo” - “Tre storie magiche”)

Fin dal principio della storia degli Anathema, Duncan Patterson era una mente pensante: sarà tuttavia con l’accoppiata “Eternity”/“Alternative 4” che la sua personalità artistica verrà ad esprimersi pienamente. Questi due album rappresentano tasselli fondamentali per l’incredibile scalata evolutiva compiuta dalla band di Liverpool: dal decadente doom/death degli esordi al raffinato ed emozionante “neo-prog” (se così vogliamo chiamarlo) dei giorni nostri, si è comunque dovuti passare da “Eternity” ed “Alternative 4”.

“Eternity” porta ancora con sé l’irruenza e la maestosità che caratterizzavano la prima fase della band, ma al tempo stesso si spinge su un fronte più avanzato nel percorso di emancipazione dal verbo metal, approdando ad un rock psichedelico di evidente marca floydiana. Il basso arpeggiato e le maestose orchestrazioni curate dallo stesso Patterson, i suoi testi dolenti, sono l’ossatura di una musica che assume inediti connotati metafisici e che mette in evidenza l’approccio esistenzialista, la tensione indagatrice verso i temi della Vita e della Morte e del Destino che sono propri del bassista: temi che, a livello musicale, si traducono in un sound stratificato, magniloquente, denso di pathos, sebbene non privo di sbavature e a tratti sopra le righe, già introdotto dall’EP “Pentecost III” prima, e da “The Silent Enigma” successivamente.

Se “Eternity” è lo spartiacque fra due ere, ad “Alternative 4” spetta il merito di inaugurare un nuovo corso per la band, che da quel momento si porterà su lidi maggiormente introspettivi, allontanandosi ulteriormente dagli stilemi tipici del metal. Dall’universale al particolare, è la tragedia dell’Io nella Società a porsi al centro del palcoscenico: il tocco solenne del pianoforte, la delicatezza della ballata acustica, gli affanni di un’interiorità spezzata sostituiscono per sempre le bordate sonore, il caos, i fiumi di feedback del passato. Se i Pink Floyd erano stati fino ad allora una fonte d’ispirazione, adesso si valica il recinto del citazionismo più spudorato: riferimenti anche troppo espliciti a lavori come “The Wall” e “The Final Cut”, insieme ad una non ancora completa padronanza dei nuovi strumenti espressivi, ostacoleranno il libero fluire di quelle energie vive che in precedenza avevano permesso alla band di strutturare un’identità forte e peculiare all’interno della dimensione metal-doom in cui era germogliata.

Una nuova, splendida identità gli Anathema la troveranno successivamente, proprio quando Patterson deciderà di lasciare. Non tanto nel pur buonissimo “Judgement”, opera crepuscolare ed apocalittica fin da titolo e copertina (usciva non a caso nel 1999), dove continuerà ad albergare il fantasma del carismatico bassista (ormai non più presente in formazione), bensì nei successivi “A Fine Day to Exit” e “A Natural Disaster”. Finalmente sgravati dalla componente “watersiana” della band, quella più rigorosa e concettuale, i fratelli Cavanagh dispiegheranno liberamente e senza veti le ali, traghettando felicemente la loro arte verso nuovi “zuccherosi” traguardi, album dopo album, steccato dopo steccato, fino alle vette altissime raggiunte da “Weather Systems” (vertice assoluto dell’ultima fase della loro produzione, quella della “rifondazione” avvenuta con l’uscita di “We’re Here Because We’re Here” dopo una lunga pausa di riflessione). Un percorso virtuoso dettato dalla conferma, in primis, delle eccelse doti compositive di Daniel (l’anima “gilmouriana” del gruppo, incontrastata adesso nella sua “ariosità”, e non più costretta nelle rigide maglie dell’asettica e minimale visione artistica di Patterson); secondariamente, dal progressivo emergere della personalità di Vincent (in crescita vertiginosa dietro al microfono e sempre più coinvolto in fase di scrittura, arrangiamenti e direzione artistica – sarà lui a spingere ulteriormente verso i territori della sperimentazione elettronica); infine, dalla compattezza di una compagine di musicisti (Lee Douglas in primis) affiatati e ben focalizzati su un unico obiettivo convergente.

Ma questa, del resto, è un’altra storia. Appurato il peso specifico di Patterson nell’economia del suono e dell’evoluzione degli Anathema (fu dunque lui a portare i Pink Floyd in una formazione di meri metallari, e forse, senza di lui, il combo di Liverpool oggi non sarebbe altro che un autorevole esponente della New Wave of British Doom-Metal insieme a Paradise Lost e My Dying Bride, i quali, dopo una fase di sperimentazione, torneranno presto all’ovile del metallo gotico), messo in chiaro questo dato di fatto, il nostro riflettore dovrà essere rivolto su questo artista che, con tenacia e determinazione, ha continuato il suo percorso nell’oscurità, dimostrando una integrità e uno spessore artistico che di certo non è secondo a quella dei suoi ex colleghi.

“Trapped in time
A miracle of hope and change
A swirling mass, no mercy now
If the truth hurts prepare for pain
...Do you think we’re forever?”

(Duncan Patterson, “Eternity part I”)

Il suo percorso, in realtà, è figlio di una cocciuta visione artistica che nel tempo manterrà pregi e difetti del Patterson compositore/esecutore: visionario architetto di sontuose impalcature sonore da un lato, ed irrequieto, fragile menestrello inseguitore di risposte inesistenti dall’altro, rimarrà nel tempo un artista incompleto, come le sue opere, sospese fra momenti eccezionali ed un retrogusto complessivo di mancato capolavoro. Al pari dei migliori esponenti del folk apocalittico, egli è come attratto dalla Morte, la sua arte esprime un desiderio di Morte, egli subisce quindi il trauma della Fine e la sua arte non è altro che l’espressione di forze atte ad esorcizzarla nella ricerca di un filo conduttore al caos e al dolore della vita su questo mondo: una via che lo guidi verso l’Eternità.

Musicalmente egli ha invece le idee chiare, e l’intero suo cammino, per quanto ambizioso, è un rimescolamento dei soliti elementi: muovendo da un vero e proprio culto per la produzione pinkfloydiana della seconda metà degli anni settanta/primi ottanta, ossia quella che va da “Wish You Were Here” a “The Final Cut”, passando ovviamente per quel “The Wall” che sarà il modello disperatamente inseguito per tutta una vita, Patterson sviluppa un percorso che affonda le radici nel catastrofismo monumentale dei Celti Frost di “Into the Pandemonium” (influenza percepibile principalmente nei primi album degli Anathema) per ammantarsi successivamente dell’eleganza e dello spleen decadente della dark-wave. Coltivando, in parallelo, una passione per le arie e le atmosfere della tradizione folk d’Irlanda, sua terra d’origine.

Un rigore prima concettuale e poi formale che in realtà non ci stupisce se pensiamo a Patterson (nonostante negli anni si sia confrontato con gli strumenti più disparati) come ad un “bassista esistenzialista” (categoria che vede il suo ideal-tipo appunto nell’idolo Waters e il suo perfetto contrario in Pastorius): perché per chi non ha proprio il ritmo nel sangue ed una irrefrenabile e compulsiva attrazione per lo slap, il basso si presta a divenire un confortevole rifugio. Patterson, come tutti i bassisti esistenziali, muove i primi passi nascondendosi dietro a quelle quattro corde (laddove la chitarra è un universo troppo ampio e dispersivo da esplorare); suonando in una doom-metal band, egli ebbe la possibilità di esercitarsi, crescere, fra un arrotondamento all’altro, nel confort degli accordi prolungati di chitarra; una volta maturato, egli capirà infine che è il ruolo del regista, piuttosto che quello dell’attore protagonista, quello che meglio gli si confà. E la sua musica diviene inevitabilmente minimale: un rigoroso reticolato di note angolari in cui riversare fluide visioni.

E’ con gli Antimatter, il suo nuovo progetto, che capiremo veramente quanto contasse Patterson negli Anathema: c’è molto della sua band precedente negli Antimatter, esperienza condivisa con il cantante/chitarrista Mick Moss. Sono dunque patrimonio del bassista quelle ambientazioni che odorano di squallide stanze vuote dove si amplificano i soliloqui di un’anima infelice che si aggira irrequieta, masticando a denti stretti il proprio dolore ed urlando repentinamente la sua angoscia: quell’universo psicotico in cui echeggiano quelle parole, sussurrate o pronunciate in quella maniera, che compongono un immaginario lirico che più tipico non si può (testi negativi e pessimisti che varranno agli Antimatter l’appellativo di “the saddest band”). Da un punto di vista stilistico, le visioni di Patterson trovano espressione anche in tante altre soluzioni più spicciole, che so: il prolungamento drammatico di un feedback di chitarra che esprime tensioni insanabili; un grido improvviso e liberatorio che non porta a nulla; il canto solitario e senza tempo di una fata (nenie che trovavano spazio fin dai tempi di “Crestfallen” e “Serenades”, tutta farina di Patterson, evidentemente). Più in generale, sono figli della sensibilità artistica del musicista irlandese quei passaggi cinematici, quelle ambientazioni bucoliche, ma dai connotati metafisici, che invero esprimono, come si diceva prima, un attaccamento ala tradizione della sua terra natia.

Gli Antimatter, del resto, almeno inizialmente, annettono nel loro corpus sonoro pattern elettronici e la presenza massiccia (non più accessoria) di voci femminili,: elementi che edificano scenari prossimi all’universo fumoso del trip-hop di Bristol (Portishead in primis). Questa è probabilmente una conseguenza del fatto che Patterson, con tutte le sue qualità, non è certo un cantante, né gli Antimatter una band nel senso canonico del termine. Per questo, di necessità virtù, e in mancanza di un batterista in carne ed ossa che lo supporti, Patterson, nel suo isolazionismo compositivo, si vede costretto a ricorrere ai beat elettronici per dare un corpo alle sue composizioni e a veder materializzati i suoi versi per mezzo dell’ugola di dolenti muse. A parte questi escamotage, dettati più che altro dalle circostanze, il mondo artistico di Patterson è il medesimo di sempre, e per due buoni terzi continua a guardare a quanto combinato da Roger Waters & Co. fra “The Wall” e “The Final Cut”.

E quindi si continua ad indugiare su quella lacerante introspezione che oscilla fra il sussurro e il grido disperato, la parola che finisce con l’eco, il pianoforte minimale, gli accordi prolungati di organo, gli ipnotici arpeggi di chitarra, gli ossessivi rintocchi di basso: il tutto però appesantito da un citazionismo che, come ai tempi di “Alternative 4”, si fa a tratti ingombrante, e da una padronanza degli strumenti che nel tempo rimarrà approssimativa (negli anni, dispiace dirlo, Patterson, sarà per i calli che gli son venuti a percuotere le spesse corde del suo strumento prediletto, il basso, non raggiungerà mai un tocco delicato con gli altri strumenti, ostinandosi a strimpellare il pianoforte, in particolare, e la chitarra, in generale, come un dilettante).

L’ultimo capitolo degli Antimatter con Patterson in formazione è “Planetary Confinement”, un album (ancor più dei precedenti) spaccato in due, figlio di sessioni differenti e di sensibilità artistiche oramai non più affini. Nonostante si possa parlare di opere partorite da band diverse, il materiale è omogeneo e le due parti trovano una loro complementarietà. Da un lato Patterson, fedele alla sua linea, decide di esplorare la componente più bucolica e paesaggistica della sua visione artistica (non a caso, dopo il suo abbandono, egli si concentrerà sul progetto di musica folk Ion), affidando i suoi brani alla languida voce di Amélie Festa (che in più frangenti ricorderà quelle parentesi di dolcezza acustica che spaccavano in due la brutalità dei primi lavori degli Anathema). Dall’altro Mick Moss, fautore di un approccio meno visionario, ma più intimo e cantautoriale, mette a punto le sue struggenti ballate acustiche, sfoggiando invidiabili capacità interpretative, e riuscendo forse a battere il suo compare sul piano delle pure emozioni.

Due parole quindi su questo valido compagno di viaggio: dotato in primis di una timbrica insolita per l’universo dark (una timbrica che lo avvicina molto ad una delle voci più belle e peculiari del rock, ossia quella di Eddie Vedder), Mick Moss porterà avanti il progetto con onestà e convinzione: il primo album degli Antimatter senza Patterson (quel “Leaving Eden” che godrà del supporto di Daniel Cavanagh in persona, tanto per rimanere in casa Anathema), porta con sé un sensazione di perdita, di mutilazione (quello dei nuovi Antimatter è senz’altro un rock più canonico e prevedibile, che si esprime prevalentemente nel formato della ballata acustica), ma si conferma come un’esperienza innegabilmente emozionante. Se dunque Moss rimane debitore a vita di Patterson, dovendo a lui quella visibilità che gli ha permesso di affermarsi e che lo ha condotto alla notorietà, egli dimostrerà di sapergli sopravvivere, anche al di fuori dell’Antimateria, firmando opere credibili come il debutto degli Sleeping Pulse, progetto condiviso con Luís Fazendeiro dei Painted Black.

Questa divagazione diviene necessaria per delineare la figura del Patterson artista/compositore, perché quello che egli è veramente si comprende soprattutto nel momento in cui abbandona una band, dal vuoto che egli lascia dopo aver curato lo start-up del progetto (sua grande capacità) e da come quel vuoto viene riempito: è come se i suoi ex colleghi, una volta liberi dal giogo di una personalità artistica così forte, trovassero slancio per esprimersi liberamente, andando a occupare quegli spazi recintati da un’incrollabile, ossessiva ed irrisolta determinazione ad inseguire le solite immagini. Patterson ignora le novità stilistiche introdotte dai Radiohead, dai Sigur Ros, dal post-rock, tutti elementi che determineranno i connotati del corso successivo degli Anathema. Patterson, mentre Moss cresce e si perfeziona come cantautore, rimane al palo, fermo, immobile al claudicante pianoforte che funge da introduzione a “Planetary Confinement” e continua imperterrito a perseguire le vie dell’Assoluto con le imponenti trame tastieristiche di “Eternity part 24” (una allucinata deriva cosmica che richiama i soliti Pink Floyd, questa volta quelli di “Shine On You Crazy Diamond”).

Patterson, invero, negli anni continuerà ostinatamente a guardare al suo ideal-tipo di canzone che è incarnata dalla pinkfloydiana “Hey You”. Pare che egli decida di abbandonare un progetto appena questo intento, questo “Credo” (il raggiungimento della “canzone perfetta”), venga ostacolato dall’emergere di forze contrarie all’interno delle dinamiche creative instaurate con i suoi collaboratori. A conti fatti, tutta la carriera di Patterson si concentra artisticamente nel tentativo di raggiungere quello standard. Limite e al tempo stesso punto di forza del musicista irlandese è proprio questo: idee chiare e determinazione che naufragano nell’irraggiungibilità di uno standard a lui inarrivabile. Come l’infrangersi dell’umana comprensione innanzi al cieco perseguimento dell’Eternità.

Dopo gli Antimatter, Patterson proseguirà il suo accidentato cammino, prima con il già citato progetto Ion e poi con una comparsata nei connazionali The Aftermath, band pop-rock irlandese in grado di riscuotere in patria un discreto successo di vendite. Chiusa questa parentesi, egli fonderà gli Alternative 4, un nome, un programma: esplicita fin nella scelta del monicker (fra l’altro l’ennesimo che inizia con la A e annette in sé le lettere A, N e T!) è la volontà di autocelebrarsi e portare avanti le solite sonorità di sempre, con il risultato che Patterson finirà per riciclare e riciclarsi, riproponendo, ma in modo meno convincente, quella formula oramai consunta che lo contraddistingue.

Che Patterson, dunque, sia pronto finalmente alla pensione? Niente affatto! Dal suo blog (in cui lo troviamo oramai in veste di uomo maturo, capello corto e barba da intellettuale) evinciamo che egli è vivo e vegeto. Parteciperà infatti al Resonance Tour 2015 degli Anathema, mini tournée europea che la band intraprenderà insieme ad ex membri come Patterson, appunto, e l’indimenticato Darren White, poeta e visionario vocalist della prima era (poi leader degli sfortunati Blood Divine). Una temporanea reunion che tuttavia non ci sconvolge né fa sperare per il futuro: sebbene negli anni fra Patterson e i suoi ex compagni si sia mantenuto un legame di sincera amicizia e di reciproco rispetto, Denny & Vinnie dimostrano, oggi più che mai, di guardare avanti forti di una nitida comunione di intenti che ovviamente non contempla un riavvicinamento ad una personalità scomoda quale è quella di Patterson, che, da parte sua, al pari dei suoi ex colleghi, non sembra affatto desideroso di spartire le sue idee in un progetto su cui non ha il pieno controllo

Ma non solo: altra notizia interessante che apprendiamo dal suo blog, è che si è di recente completata la raccolta di fondi per la realizzazione del progetto più ambizioso della sua vita, ossia un album completamente orchestrale, di nome, guarda caso, “The Eternity Suite”: ironicamente, il mondo di Patterson, sebbene non sia poi così vasto, guarda ancora, perennemente, ostinatamente, verso orizzonti lontani, con l’eroica e fatale risolutezza del volo di un albatros che si dirige, stancamente, specchiandosi nelle acque leggermente increspate di un mare placido al tramonto, verso la notte stellata dell’Eternità…

“…la morte è un angelo che ci trasporta dal mondo oscuro al mondo luminoso. Io, ogni sera, avvolta nell’ombra, guardo il cielo e vedo luccicare le stelle. So che un giorno navigherò felice in mezzo a loro”.


Carico i commenti...  con calma