Il '69 mi perseguita. Ultimamente non faccio altro che recensire album usciti in quell'anno e tutti capolavori. Il '69 può rappresentare molte cose (!), ma a livello musicale mi vengono in mente alcuni fatti: Woodstock, la morte del folk come genere puro e movimento culturale ecc.
Eppure questo disco non ha niente a che fare con i fatti sopra menzionati.
Dusty non suona alcuno strumento, non compone o scrive canzoni, non partecipa ad alcun movimento socio-politico... Dusty è voce, non "la" voce come Frank Sinatra, ma dolore, gioia, disperazione, sensualità, solitudine, potere, malinconia sotto forma di voce.
Dusty era ma per chi continua ad ascoltarla è e rimarrà sempre L'INTERPRETE, eppure ha sempre raggiunto una sorta di empatia viscerale con le canzoni che cantava che gli stessi cantautori che le hanno regalato le proprie composizioni sono rimasti terrorizzati dalla sua interpretazione (vedi Burt Bacharach, Carole King, Janis Ian e molti altri, tutti hanno espresso la stessa paura di non poter più cantare quella canzone perché Dusty l'aveva già eseguita!). Qualsiasi canzone che cantava diventava sua.
Dusty è un mito, un idolo, l'ultima grande diva del soul/pop bianco, come è stata definita. Elton John, Paul McCartney, Annie Lennox, Cher, Bruce Sprengsteen, Elvis Costello, Alison Moyet, Sinead O'Connor, i Pet Shop Boys, gli Oasis e moltissimi altri l'hanno adorata.
Mmmmmm Dusty e il soul... mi fa venire in mente una serie di episodi che sono culminati appunto in questo disco "Dusty In Memphis". Dusty che ancora prima dell'arrivo dei Beatles in America aveva battezzato con la solare "I Only Want To Be With You" la British Invasion nei primi anni '60. All'epoca non esisteva il videoclip e la radio era il maggior veicolo di promozione di un singolo... Tutti gli Americani credevano che lei fosse di colore!
Dusty che duetta con Martha and the Vandellas (girl band tutta di colore, famosa all'epoca per una serie di hit tra cui spicca "Dancing in the street" sotto il segno di Phil Spector) e che non vuole cantare di fronte a un pubblico di soli bianchi in Sud Africa o che fa conoscere agli inglesi durante i suoi show alla BBC il grande Philly sound sopra citato.
E finalmente Dusty a Memphis.
Dusty prende bagagli e burattini e nel 69 si trasferisce da Londra negli USA. Dusty e la capitale del soul/blues. La sua voce è una voce nera, eppure non può essere più bianca e angelica di così. Dusty è sempre stata una tribolazione fatta a persona, un caos interiore continuo. Tale miasma si è sempre trasferito nello studio di registrazione: perfezionista all'inverosimile, insicura e talvolta intrattabile eppure appena apre bocca tutto diventa paradisiaco.
"Dusty In Memphis" è un album perfetto in tutto e per tutto, è la quadratura di un cerchio, l'immensità nella sua impossibilità. Dusty lo ha cantato, inciso, arrangiato e ripetuto sillaba per sillaba (guardate che è vero...leggete le interviste di tutti coloro che hanno avuto la (s)fortuna di entrare in studio con lei e vi diranno che si metteva a cantare e reincidere le canzoni sillaba dopo sillaba!).
Dusty che voleva incidere un album alla Aretha Franklin.
Dusty aveva un immenso bagaglio alle spalle: dalle ballatone come il successo mondiale "You Don't Have To Say You Love Me" (trasposizione dell'italiana "Io Che Non Vivo Più Di Un'Ora Senza Te"), alla sensualissima "The Look Of Love" di Bucharach e passare di punto in bianco al soul era considerato all'epoca un suicidio.
Ma Dusty in Memphis non ha genere... ed è in effetti un suicidio ma come quegli atti tragici che hanno un proprio potere interiore poi diventano mitici... è il frutto di un lungo e sofferto travaglio che non poteva sfociare se non in uno dei capolavori di ogni secolo (inserito nella lista dei 100 album più belli della storia da Rollingstone), sforzo sovrumano e tribolato di decine di esseri umani che hanno sudato, si sono incazzati, hanno pianto, sopraffatti dal nervosismo e dalla felicità e hanno creato un'emozione chiamata "Dusty in Memphis".
Produttori di altissimo rango della Atlantic (Jerry Wexler, Tom Dowd e Arif Mardin) hanno intessuto, cucito, adornato, scolpito e dipinto quello che nemmeno la perfezione poteva mai aver pensato di creare; musicisti tra i migliori sulla piazza a Memphis all'epoca non sarebbero mai più riusciti a reimbracciare il proprio strumento come una volta dopo questa esperienza.
Ascoltate l'armonia con la quale l'orchestra e soprattutto i violini si intrecciano con la voce di Dusty, si rincorrono, l'una fa da cuscinetto all'altra, nessuna cerca di predominare come nei dischi precedenti dove alla magnificenza dell'orchestra si contrapponeva la potenza espressiva della voce di Dusty che non ci metteva tanto a superarla. Ma no Dusty è cambiata e inzia a utilizzare una modulazione che da questo momento in poi segnerà il resto della sua discografia: dolce, soave, a volte sussurrato per arrivare verso la fine della canzone ad un crescendo emotivo bestiale che lascia l'ascoltatore nudo di fronte a quell'esplosione di emozione come lo possono essere solo quelle parole o frasi in cui Dusty con solo la sua voce riesce a riporre tutta la sua anima.
Ascoltate per esempio "I Don't Want To Hear It Anymore" quando pronuncia "...and the walls are muuuuch tooooooo thin...", Gesù cristo e i 300 apostoli!!! Nessuno e su questo ci metto la mano sul fuoco avrebbe mai potuto caricare quella frase con tali emozioni; oppure l'incipit di "Windmill Of Your Mind" (all'epoca colonna sonora del film con Seve McQueen "The Thomas Crown Affair" e di recente è stata ripresa per un altro film - scusate ma non mi ricordo il titolo... qualcosa con Pluto) in cui lei attacca con "Round ike a circle in a spiral/like a wheel within a wheel..." sublime!
Bucharach ("In The Land Of Make Believe"), Carole King ("So Much Love", "Don't Forget About Me", No Easy Way Down" e "I Can't Make It Alone"), Randy Newman ("I Don't Want To Hear It Anymore" e "Just One Smile") e molti altri autori sono presenti in questo album... ma soprattutto la canzone che verrà sempre ricordata sarà l'ormai celebre "Son of a preacher man" con quella famosa linea di basso in apertura (scartata all'epoca da Aretha, e portata al successo da Dusty - n.10 nella classifica Billboard) e rinata di nuova vita nel 1995 grazie a Qurntin Tarantino che ne fece uno dei cavalli di battaglia della colonna sonora di Pulp Fiction.
Guardate che tali miracoli accadono solo una volta nella vita, quell'alchimia tra Dusty e i musicisti, Dusty e le coriste (le cosiddette Sweet Inspiration tra cui vi è da annoverare la madre di Whitney Houston), Dusty e l'orchestra (no quei violini non si sentiranno mai più), Dusty e le liriche (semplici ma dirette come lo sono i fatti nella vita dove sentimenti, emozioni e paure fanno da padroni).
La frenesia di quelle sessioni che hanno partorito tale divinità hanno dato vita a moltissime altre composizioni che sono poi finite nelle rimasterizzazioni di questo album (consiglio vivamente l'edizione Deluxe della RHINO Warner, digipack che offre oltre a 14 bonus tracks uscite proprio da quelle sessioni, tra cui spicca "You've Got A Friend" della King e "I Found My Way" che sarà assolutamente la canzone che metterò al mio funerale... anzi metteranno, e in più anche un libretto davvero splendido!).
Semplicemente pazzesco ma tremendamente incomparabile.
Inimitabile e incommensurabile.
Dopo quasi 40 anni questa vetta non è stata mai raggiunta.
P.S. Mi scuso ancora una volta, lo so la mia tendenza a scrivere recensioni kilometriche è inversamente proporzionale alla mia voglia di accorciarle!
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