Il primo album era stata una bella sorpresa ma non pensavo ne arrivasse subito un altro, in un’epoca storica dove i tempi diventano sempre più biblici. E invece il trio composto da Nick D’Virgilio, Neal Morse e Ross Jennings si ripresenta dopo neanche due anni con il secondo album “Sophomore”, un album sostanzialmente più maturo.

Ci troviamo sempre di fronte a tre musicisti provenienti da un bagaglio prog che si uniscono per fare qualcosa di ben diverso, piuttosto lontano dal loro genere abituale; e il risultato non può che essere stupefacente, perché la preparazione e l’esperienza del musicista prog si palesa anche quando si va su territori diversi e più “easy”, il musicista di provenienza prog sa sempre come metterci quel qualcosa di più. Ancora una volta l’impalcatura è fondamentalmente acustica e siamo su territori tipicamente folk rock e country rock, non si escludono incursioni nel blues, l’impronta è sempre molto americana.

Come già dissi in qualche occasione, secondo i miei personalissimi parametri, l’impronta acustica non è automaticamente traducibile nel genere folk come spesso si crede e si decreta, personalmente per ascrivere la musica a questo genere serve quel qualcosa che rimandi esplicitamente ad un ambiente molto rurale, contadino, legato alla terra, oppure qualcosa che sia davvero legato al folklore popolare. L’ultimo lavoro solista di James LaBrie per me non è folk, perché non richiama quell’ambiente, così come non reputo folk i Kings of Convenience. Qui invece devo dire che quell’aria tipicamente rurale si respira eccome, ma in particolare si respira un’aria molto americana, anche se probabilmente non era davvero nelle intenzioni del trio.

Riprendendo il discorso di prima la chitarra acustica è la grande protagonista ma abbiamo anche percussioni delicate e suggestive che contribuiscono a creare l’atmosfera, abbiamo anche tappeti d’organo che rendono più caldo il sound, a volte qualche piano elettrico. Abbiamo tracce più movimentate e vivaci e altre più raccolte ed intimiste. Fra le prime la più frizzante è senz’altro “Tiny Little Fires”, con sarabanda di chitarre acustiche, percussioni, organi e l’eccezionale presenza del sintetizzatore e di uno xilofono, oppure “Walking on Water” che paradossalmente è un flamenco soltanto un po’ più americanizzato; e che dire del sincero country-blues con slap acustici e colpi d’organo dell’apripista “Hard to Be Easy”. Dall’altra sponda, quella più pacata, invece si elevano su tutte “Right Where You Should Be” e ancora di più “The Weary One”, che sembrano veramente uscite da qualche telefilm americano, quando le ascolti ti immagini davvero la casetta legnosa nelle praterie in un’atmosfera però stavolta decisamente piovosa e malinconica; per entrare più nel dettaglio possiamo sottolineare nella prima le vibranti note elettriche che a intervalli ben studiati emergono in mezzo alle chitarre acustiche dando al brano un’inflessione veramente country, la seconda invece è lentissima ed è proprio la canzone da stanza buia e camino, oppure da falò, gli archi vorrebbero cercare di renderla più viva e invece gli interventi con il fischio la rendono cullante il più possibile. Altri brani notabili sono: “Anywhere the Wind Blows”, che è un perfetto brano “on the road” e se ne sono resi conto tanto che nel videoclip si vede Neal Morse percorrere le campagne a bordo di una decappottabile; e “Mama”, dove si abbandona il folk per un rock-blues massiccio che comunque non diventa mai hard (applico qui lo stesso discorso circa il folk, non è sufficiente avere una chitarra un po’ rocciosa per parlare di hard rock, sia chiaro).

Una caratteristica che ho notato, anche nel precedente album, è lo spazio piuttosto risicato che viene concesso alla voce di Ross Jennings, sono poche le parti che canta in prima persona, rimane fondamentalmente un corista ma anche quando si canta tutti insieme è quello che si sente di meno. La mia domanda, da non grande fan della voce di Jennings, da uno che lo considera il punto debole di una grande band come gli Haken, è: sarà che anche Morse e D’Virgilio si saranno resi conto delle sue limitate capacità vocali? O sarà che i due ex compagni negli Spock’s Beard si conoscono meglio e da molto tempo e si fidano ciecamente l’uno dell’altro mentre sono più diffidenti nei confronti del più giovane collega britannico? Chissà…

In ogni caso il trio non è più una sorpresa, “Sophomore” è il disco della conferma ma anche un passo avanti, risultando leggermente più ricco e più coinvolgente del primo. Se il primo album sembrava un po’ meno creativo e non mi faceva sperare più di tanto in un seguito, ora invece spero che il progetto andrà avanti.

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