Prendendo nome dai segni astrologici dei membri fondatori, il percussionista/cantante/session-man Maurice White, il fratello Verdine al basso e Wade Femons alle voci creano nel 1969 con gli Earth, Wind & Fire uno dei più popolari ensemble di funk/R&B nella storia della black music. Fondendo magicamente una passione per una spiritualità d’impronta misticistica e una religiosità quasi profana, con richiami tra il monoteismo cristiano e i rituali delle antiche religioni politeiste (in particolare quella egizia), la band attira subito fascino su di sé nella cultura post-sessantottina di Chicago, improntata ai comuni valori di amore, pace e valorizzazione dei sentimenti. La musica e l’inconfondibile stile che gli EW&F formuleranno in seguito nasceranno poi come qualcosa di naturale, di spontaneo, uno stato di trance trascendentale che porterà i musicisti a valorizzare al massimo le proprie potenzialità, stirando al limite le proprie capacità, forgiando un prodotto così appetibile da poter esser apprezzato in modo ambivalente ma non contraddittorio: cioè sia come ottima musica da classifica, da limonate e da pista da ballo così come una dolce e stimolante meditazione verso l’infinito, verso i problemi più ossessivi dell’umanità, come una celebrazione della vita, del sudore, della collettività.
“Gratitude” giunge nel 1975, al centro di una decade di cui i nostri furono tra gli indiscutibili protagonisti. Reduce dal successo del best-seller “That’s The Way Of The World” , la band aveva appena trovato quell’ alchimia di eleganza ed energia che l’aveva fatta uscire dall’anonimato dei primi cinque album, apprezzabili ma ancora poco rilevanti esempi di un’ irrequieta squadra R&B in formazione. Sulla scia di hits impeccabili come la title-track e scatenati pezzi di grintoso e furoreggiante funk (vedi “Yearnin‘ Learnin‘” o l’incandescente riflessione sul mondo dello show-business “Shining Star”), venne chiesto a White e soci la compilazione di un album live che testimoniasse gli splendori e l’acclamazione del precedente tour, il primo a livello mondiale. Ma il complesso, instancabile e desideroso di far sentire immediatamente al proprio pubblico gli innovativi pezzi a cui allora stava lavorando in vista della prossima uscita, decide di creare un magnifico doppio LP con due facciate live, raccolte dagli stadi di tre continenti e due con cinque canzoni inedite. Nasce così Gratitude, un dichiarato atto di gratitudine della band verso i propri ammiratori. A ben vedere però la gratitudine che emerge è più quella di noi estimatori, che veniamo resi partecipi dell’apice creativo ed emotivo di una musica ipnotica, per qualcuno quasi celestiale, soprannaturale per la straordinaria qualità di risultato.
Definiti spesso all’interno dell’olimpo funk i paladini del “white side” in contrapposizione al “dark side” degli politicizzati antenati Sly & The Family Stone, in realtà gli EW&F non necessitano paragoni col passato o col futuro, ma con il loro affollato presente, dominato da decine di valide band rivali, dai Commodores ai Kool & The Gang, dagli Ohio Players agli Isley Brothers fino ai Cameo, tanti nomi validi ma senza speranza di poter competere con la loro perfezione ed estetismo musicale. I falsetti incredibili di Philip Baley, la qualità dell’ articolatissima sezione ritmica, l’intensità dei fiati e i lavori di chirurgia dell’insostituibile chitarrista Al McKay fanno del complesso un’inarrestabile macchina per il piacere sonoro. Sarete sottoposti a suite strumentali febbrili e sognanti (l’introduzione di “Africano”), a splendidi vocalizzi corali accompagnati da un pubblico imbambolato e completamente preda di uno spettacolo sì sontuoso, quasi pacchiano, ma pregno di sostanza. E che sostanza. “Reasons” è un gioiello di intimismo in salsa rosa, il racconto di un risveglio mattutino nel letto di una signorina dopo una notte disco più calda del solito, l’impaccio di non ricordarsi i nomi, il rammarico per dover scappare stringendosi in tasca il ricordo appannato di quella pelle, di quel profumo. E dopo attimi di silenzio, Baley sospira, cammina sul palco, la canzone si allunga inaspettatamente in un duetto col sassofonista Don Myrick, un duello alla nota più acuta, fino al silenzio. Per concludersi col boato entusiasta del pubblico. “New World Symphony” è il classico pezzo che da solo può valere il costo di un album: nove minuti di viaggi in mondi lontanissimi (mi perdoni Battiato), dove vengono fatte percepire le temperature più diverse, visuali futuristiche o ritorni a epoche primordiali sovrastate da vegetazione lussureggiante e agenti atmosferici devastanti. Poi un ritorno alla realtà, ad un terzo della traccia, sembra di essere tornati nel live all’Apollo a fianco di James Brown, infine un nuovo tuffo verso il niente, con gli orecchi traboccanti melodie pulsanti.
Riapriamo gli occhi, ed è un rammarico che questa mezz’ora di grande showmanship siano l’unica testimonianza rimasta di spettacoli talmente sublimi e coinvolgenti. Per fortuna rimane da ascoltare un’altra facciata, con capolavori come la classica “Can’t Hide Love”, con un’ottima interpretazione di White e l’allegra coda molto good times del tormentone “ Sing a Song” . Due ultime chicche: una bonus track consistente in un succulento medley tratto dal programma tv condotto da Natalie Cole negli anni '70, impeccabile quanto emozionante, e il fatto che attualmente i due dischi sono stati uniti in un unico cd che trovate al modico prezzo di 5, 90 euro. Altamente consigliato agli amanti del genere, a chi sta cercando uno dei più grandi live di sempre, e agli amanti della musica da acquolina in bocca.
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