I grandi bassisti jazz si contano sulle dita di una mano. Eberhard Weber è sicuramente uno di questi. La sua musica ha un lirismo avvincente. La paletta dei suoi colori, straordinariamente ricca, ha fatto da supporto armonico a Garbarek, con la cui poetica musica rivela di avere evidenti sintonie. Weber non è un funambolo dello strumento, la sua virtù non è mai stata la velocità ma la limpidezza del suono, l'eleganza della scrittura e la buona fattura degli arrangiamenti. I dischi più celebrati sono il primo, The Colours of Chloë, del 1973, con una formazione variegata in cui è presente anche una sezione d'archi, e Yellow Fields, che vede una compagine più classica (tastiere, sax e drums).
Il disco recensito è prodotto dalla celeberrima ECM, una major che ha lanciato un "suono" tutto suo e che è una sorta di foresta incantata, nella quale possiamo scoprire ammalianti fate e pacifici folletti, splendidi tesori, spesso nascosti, di incomparabile bellezza, ma a volte anche lugubri gnomi, e occorre accostarsi al suo ambiente sonoro con i piedi di piombo. Ed è proprio "Silent Feet" il disco che vorrei proporre, di appena tre brani, suonato magistralmente dal nostro, e accompagnato dalla splendida batteria di John Marshall, e dai poco noti Rainer Bruninghaus al piano e Charlie Mariano al sax. È un disco pregevole, non per tutti i palati certo, ma che si mantiene sempre su linee sostanzialmente tonali e melodiche. Rifugge dal minimalismo monocorde di alcuni altri album, non è "specialistico" come Pendulum, opera per basso solo, e non ha nemmeno quei richiami alla musica cameristica moderna del suo primo album. In particolare l'incipit di piano solo del primo brano, Seriously Deep, vale l'intero acquisto: semplicemente straordinario. Il basso a cinque corde del tedesco si muove sinuosamente fra gli arpeggi delicati e intriganti di Bruninghaus; via via si aggiunge il sax che spinge il tema su toni più energici e vigorosi e il brano scivola bene facendosi apprezzare tutto d'un fiato. I due successivi brani, "Silent Feet" e "Eyes That Can See In The Dark " non sono da meno. Non solo la title track, con una sezione centrale molto fantasiosa in stile jarrettiano, ma anche l'ultimo, inizialmente così "buio" e inquietante, si dipana rapidamente con uno svolgimento sempre più lineare fino a raggiungere il picco sonoro con il "pieno" strumentale, per poi tornare ad un clima più disteso, come un fiume che ha finito la sua corsa e placidamente si unisce al mare. Un disco impegnativo ma traboccante di musica.
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